giovedì 17 dicembre 2015

Glock.

Glock.



Racconto 3° classificato al concorso Giallo Miele 2012



1.
Ho preso la padella e con il mestolo di legno ho messo il fricandò nel piatto fondo. Il profumo dei peperoni ha dato una scossa al mio torpore. Prima di versare il contenuto nel piatto, ho letto il nomedel fiore che vi è disegnato: Ophrys speculum, un’orchidea. Per chi non lo sapesse le orchidee non sono un fiore, ma una filosofia. Io non sono né un fiore e tantomeno un filosofo invece, per cui non riesco a coglierne il significato metafisico. Le rispetto, per motivi che non riguardano l’aspetto puramente estetico o legato alla difficoltà nella coltura, ma non me ne intendo. So per sentito dire tra l’altro  che  vengono utilizzate per scopi terapeutici, come emolliente consigliato nelle diarree infantili. Perché lo so?, chi lo sa…bisogna pur passare il tempo e nella nostra era moderna il personal computer ti dà la possibilità di farti una cultura sommaria sulla destra e sulla manca, sapendo un poco di tutto  e un cazzo di niente. Forse lo so perché di riffa o di raffa penso che la diarrea sia lo stato mentale che al momento mi accompagna, in questo luglio afoso. Sono un killer, professionista. Come tutte le persone di questo mondo ho una testa con capelli sopra, non comune a tutte le persone del mondo. Intendo non che la mia testa sia sopra la media di dimensione o con un quoziente intellettivo  alla Sharon Stone  (che  pare  lo abbia alto) ma che ho i capelli. Ciò non appartiene alla maggioranza degli uomini della mia età. Sono un killer, professionista, con il vizio di pensare che avere i capelli vuol dire avere le storia, per un uomo. La propria storia, a portata di
specchio. Perché solo grazie ai capelli  è possibile il confronto tra quando tutto ti andava per il verso giusto, ed erano corvini come il sedere di un cavallo da dressage, e quando tutto ti va di traverso come un uovo sodo, e sono bianchi come un martini. Bianco come il mio colletto, da impiegato. Ho un’ossessione, posso dire che non sono le orchidee o la peperonata, ma il fatto che non posseggo la fortuna di quelli che riescono a fare il proprio amato mestiere tutte le mattine. Non ho la fortuna di potere pianificare le ferie o le festività soppresse, il natale e il cucù, che non vuol dire nulla se non la scelta di prendersi un permesso per farsi i fatti propri. Perché io non posso fare il killer tutti i giorni, purtroppo. Cosa che mi piacerebbe davvero, il sogno realizzato da quando ero ragazzo mentre leggevo Segretissimo. Io le ferie le devo pianificare in ufficio, la mia copertura, per non lasciare dei buchi sulle attività; mi farei un buco in testa a pensarci, se non fosse che la prima regola del killer è quella di non farsi ammazzare. Tanto meno dalla società moderna.

2.
Non poter esercitare giornalmente la professione  in cui sei il migliore ti fa diventare un po’
paranoico. Che io sia il migliore lo penso da solo, non c’è una classifica dei killer come all’Olimpiade: per fare certi mestieri bisogna essere egocentrici e bisogna sopravvivere, anche a costo di essere scortesi. Non soffermarsi a dire ad una vittima “Coraggio, fatti ammazzare”, ma sparare senza fiatare. Alcuni romantici lasciano un cadeau di ricordo, alla Occhi di Gatto, ma dopo un po’ muoiono. Io no. Io non sono un romantico e ci tengo a vedere i miei capelli diventare tutti bianchi. Sono uno che porta a casa il risultato ed ha come obiettivo solo di piacere a sé stesso. Se non sono egocentrico del resto mi accoppano.

3.
Dicevo della paranoia. Per dare un’idea sono diventato amante della Formula 1 perché ho scoperto che un  pilota si chiama Glock.  Tutt’altro che un campione, perciò  lasciai perdere. Non  tutte le Glock escono col buco. L’importante  però  è che la mia ce  l’abbia, il buco: quello della canna intendo.

4.
La mia psichiatra, che mi dà dello schizofrenico, mi consiglia di scrivere per alleviare le sofferenze di credersi un killer a tempo parziale; quando non ho davanti a me un obiettivo, da accoppare, il mio obiettivo si riduce a riempire delle pagine a mo’ di purgante, per purificare la mia mente obnubilata dai pensieri “malavitosi”.

5.
“La smetta di pensare di vivere a Marsiglia”, mi è solita dire la Carla. Come se s’ammazzasse solo a Marsiglia. Ma la vita è un parapiglia anche se non si vive a Marsiglia, così come ci sono bari anche fuori da Bari. Vai a farlo capire alla dottoressa.
Bella donna, sulla quarantina anche lei, i cui capelli definirei rosso magenta se non fossi daltonico. Magari sono castani castagna. Me l’ha consigliata Antonio, il mio unico vero amico, anche perché è mio fratello.  A lui ho confidato la mia  trama, raccontandogliela un po’ naif, per non scoprirmi troppo. Tanto sono certo che mi prende per eccentrico all’inverosimile e non  gli dà credito di un centesimo. E poi è riservato di natura. Mi ha sempre visto come l’anello di congiunzione tra l’uomo e il pagliaccio, uno nato per far ridere intendo, ma che non è mai riuscito a dare libero sfogo alla sua reale natura. Per un certo verso ci ha preso,  e preoccupato ha fatto quello che un buon fratello maggiore deve al minore:  aiutarlo. In questo caso mandandomi da una strizzacervelli amica sua.
“Hermano, fammi ‘sto favore va. Manco la paghi che c’ho degli affari con quella. Sai, un po’ di qua un po’ di là, meglio tenere il piede in più scarpe”, e mi ha strizzato l’occhio. Diavolo pure lui. Mica me l’aspettavo che c’avesse di queste tresche. Da uno che fa il broker d’assicurazioni, al massimo, t’aspetti che gli si macchi la camicia di pezze d’ascella.

6.
Buonanotte caro diario, ci vediamo domani, credo di aver scritto a sufficienza stasera, purtroppo mi stanco a fare quello di cui non sono capace e non sono un killer sentimentale, così come mi stanco di te, che dovrai essere la mia coperta di Linus.
Silenzio, poi: “Bang Bang!”.
“Cos’è successo?”.
Niente, creavo solo un po’ di suspense per me stesso…

7.
Siccome non sono uno scrittore, ti dovrai  sorbire ripetizioni, appiattimenti della storia  o veloci
accelerate di ritmo - scusa sono sotto psicofarmaci - oppure a volte perifrasi quali “'l’tristo sacco /che merda fa di quel che si trangugia” per indicare lo stomaco ovvero volgari parolacce da scaricatore di fronte ad un porto. Quando ero a scuola ero forte nella scrittura dei temi, ma dovevo sviluppare il titolo per dare la mia opinione al maestro; che poi a lui non piacesse, è un’altra storia. Diceva sempre a mia madre che stavo alla genialità come un tonno sta al delfino… è chiaro? Ora, forse è vero che non ero un genio, ma un bambino deve per forza essere un genio per prendere sei in un saggio di italiano? A me piace più pensarmi come un pesce siluro, che non guarda in faccia a nessuno  quando deve arrivare alla sua preda. Leggende dicono che  fagociti anche cani, sommozzatori, scarpe  Prada e via dicendo. E’ quindi un pesce democratico, che non concede privilegi alla propria preda, quello di sentirsi predata perché importante. Diversa è la nostra società: anche e soprattutto nel mio mestiere, ci sono maschi alfa e maschi beta, di maschi omega è pieno il mondo ma non serve ammazzarli, la plebaglia fa sempre comodo ai capibranco. Quindi, non divaghiamo appunto, scusa il pluralia maiestatis, ma hai già capito che soggetto sono, anche perché te l’ho detto io. “Io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi…e nelle unghie, allora…ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona”.
Ora, sei d’accordo con questa frase?, non l’ho scritta io naturalmente, e sottolineo il naturalmente oltreché l’io. Ma vorrei solleticare la  tua intelligenza. Ogni tanto quindi riporterò una citazione, per farti pensare a me anche quando ti avrò chiuso Diciamo che, visto che mi danno dello schizofrenico, voglio farti sentire perseguitato un po’ anche a te. Ma… non divaghiamo per davvero. La Carla mi ha consigliato di tenere un diarietto, una pagina al giorno, per scrivere il mio zibaldone di idee, con il preciso fine di aiutarmi a liberare la mente dall’idea di essere un killer inattivo e quindi frustrato. Il fatto che mi porta a farlo sul serio, lo scrivere intendo, è che io sono frustrato  per  davvero! Perché  oltre a non potere  esercitare il mio mestiere quotidianamente  lavoro sotto copertura per una banca, come analista interno. Questo comporta  alla mia frustrazione originale  anche la frustrazione tipica dell’impiegato medio, che definirei meglio come impiAgato, tanto per rendere l’idea.  La vita dell’impiAgato è come una sciarada monca in cui si deve scoprire solo quale lettera sostituire alla “X” nella parola “MerXa”. Non so se fila il ragionamento, ma ho accettato la scelta di scrivere. E poi una paginetta al giorno non è niente. E’ dura dover timbrare ogni giorno un cartellino se sai di essere più svelto di Terence Hill a maneggiare la colt. Che colpi potrebbero partire tutti i giorni da questa mano, la mano sinistra del diavolo, bang. Mi parte un sorriso ora, fugace come una passante che non rivedrai mai più. Meglio lasciare perdere i sogni, sennò dal nervoso mi parte un ponte.

8.
Certo  che scrivere  a ruota libera non  è poi tanto difficile.  Diverso è provare a descriversi.
Fisicamente, caratterialmente, geomorfologicamente (certe persone hanno una pelle nel viso che sembra il lascito di un’eruzione del Teide), “Porta gli occhiali, il cappello com’è: ma è Jack, ecco chi è!”. Arrivare alla buona rappresentazione di Jack non è poca cosa, in questo caso, che poi non è un caso, ma più che altro un caos. Cambiando l’ordine degli addendi il risultato cambia eccome. Prova a dare un giudizio, anche solo con un aggettivo differente, e vedrai che tutto scorre diverso, dammi un aggettivo d’appoggio e solleverò il mondo del tuo giudizio:

Jack era alto. Barba rasata con i baffi alla siciliana, sguardo sciupato, i capelli neri con  alcuni
ciuffi grigi aggiustati con una riga retrò, qualche chilo di troppo sul ventre.

Jack era bassetto. Barba rasata con i baffi alla siciliana, sguardo sciupato, i capelli neri con alcuni ciuffi grigi aggiustati con una riga retrò, qualche chilo di troppo sul ventre.

Nel primo caso si parla di un uomo che ha la più importate caratteristica che gli fa possedere mezza bellezza. La restante parte della descrizione è un corredo di nozze, le nozze coi fichi secchi; non si dice l’età, ma dev’essere sulla quarantina, ha lo sguardo sciupato, perché sciupa le femmine o la vita  appresso a qualcosa d’altro non si sa. E’un esteta, amante di sé stesso, porta i baffi curati, questo è conclamato.  I capelli, ne abbiamo già parlato in precedenza.  Alto e sciupato dagli avvenimenti è già affascinate di per se. Bassetto e sciupato sembra la descrizione di un tappeto turco di un vecchio hamman. Ecco, l’uomo del secondo caso nella mia testa è per esempio un turco, stanco per la giornata passata a scaricare e caricare datteri al mercato, che porta i baffi sì, ma per tradizione e non per estetica e li ha alla siciliana perché è mezzo glabro sul viso. E’ sciupato come l’altro, ma dalla quotidianità. Entrambi hanno qualche chilo in più, ma io perché non si è mai visto un killer che beve latte, solo nel cinema. Il turco perché la sera mangia sino all’orlo per non moriresenza sapore. Di aglio, che tiene lontani i vampiri della vita.

9.
Sono un killer, professionista, il cui nome in codice è Jack. Il mio vero nome però è Giacomo Lai.

10.
“Io voglio alzarmi ora, e voglio andare, andare ad Innisfree, e costruire là una capannuccia fatta d’argilla e vimini: nove filari e fave voglio averci, e un alveare, e vivere da solo nella radura dove ronza l’ape”. Quanto mi ha fatto compagnia la musicalità di questi versi di Yeats nel corso della mia vita. Io ape regina della mia famiglia, il più piccolo e il più venerato. Da sempre mangio miele a man bassa, forse nell’errore di credermi immortale come gli dei dell’antica Grecia, gli unici che potevano cibarsi di ambrosia a quei tempi. Io che ne ho bisogno davvero per sperare di alzarmi dal mio letto la mattina, e non svegliarmi invece in un letto di sangue. Seppur dolce, non è mai divino come il miele.

50.
Credo di non farcela più. Ho strappato tante pagine, un raptus. Due mesi di scritture mie personali. Ho il mio motivo oltre al solito, ed è tremendo. Sfogo: Mi sembra di scrivere il mio coccodrillo. La mia estrema unzione. Il mio eterno riposo, che donerai a me o Signore, e risplenda a lui il fuoco perpetuo delle fiamme blu dell’inferno.  Amon. Termino questo necrologio con la storpiatura dell’amen, una blasfemia forse, ma non voglio che “così sia”. Prosit anzi, alla mia salute dovrei brindare, che sono ancora nel fiore degli anni ma stanziato in una stanza buia e ancora distanziato dallo zio Sam, che non mi dice più “I want you” per fare il mio dovere, nemmeno ora che non è necessario un mandante.

51.
Ho  preso l’accendino  ed ho  acceso il gas.  Una fiammata mi ha  cotto qualche pelo del braccio, espandendo un profumo di pelle di pollo abbrustolita che ha coperto quello del mio dopobarba denim, acre ed alcoolico per l’uomo che non deve chiedere mai. Io infatti non ho mai chiesto niente a nessuno, sono gli altri che mi cercano per fare fuori degli altri ancora. La pubblicità è la vera sesta arte. Abbassata la fiamma, mi sono reso conto di essere mortale  per davvero.  Ora lo so:  la mia recente disillusione è riuscita a togliermi il giubbetto antiproiettile e rendermi già vulnerato. Sono andato in bagno e ho preso un ferro per fare la maglia, comperato il giorno prima in un vecchio negozio in via Belmeloro. La ragazza che me l’ha venduto non mi ha chiesto il perché o il percome un uomo si è preso la briga di comperare un oggetto tipicamente utilizzato dalle donne. Una persona riservata. Non ce ne sono tante al giorno d’oggi. Ho appoggiato il ferro sul fornello, metallo contro metallo. Bene, il gioco è fatto, quanto è semplice farla finita se uno vuole farlo in silenzio, seduto sul divano di casa con della buona musica. Gian Maria Testa, il suo caldo sussurro e i pizzichi di chitarra mi è sembrato adatto. Rispettoso ed educato, o meglio edulcorante. E’ così semplice andare nei campi elisi che basta perforarsi un polmone con un ferro da maglia incandescente. Lo si può fare da soli, senza aiuto. Self made killer. E’ molto doloroso, una scelta per uomini veri, io infatti uso il denim, non per mezzeseghe che si rifanno le sopracciglia e poi si passano il Lasonil sopra perché gli brucia.

52.
Ho pensato a questo modo per inscenare un omicidio per la mia prossima terapia suggerita dalla Carla. Lo psicodramma. Stavo quasi per prenderci gusto alla fine, meno male che Testa ha finito di cantare e mi sono rimesso la testa sulle spalle. La condizione in cui mi trovo è proprio fuori dal tempo. Distortion.

53.
Quando Carla ha parlato dello psicodramma mi è venuto mezzo da ridere. Per rispetto del ruolo naturalmente hanno riso solo i miei occhi: I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi che tu venga all'ospedale o in prigione nei tuoi occhi porti sempre il sole.

54.
“E’ una terapia di gruppo ideata da J. Levi Moreno. Si inscena un gioco drammatico e si mira a sviluppare la spontaneità dei pazienti facendo emergere i loro vissuti personali, grazie a improvvisazioni sceniche. Il  "direttore del gioco" è lo psicoterapeuta che analizza tutto quanto accade”, mi ha spiegato la Carla. Sono proprio un ignorante, io al massimo potrei citare Levi Strauss, ovvero Michael J. Fox in “Ritorno al futuro”. La Carla finito di parlare si  è alzata  e si  è guardata i jeans soddisfatta, riflesso incondizionato o condizionato?

55.
“Giacomo, con questa ultima terapia possiamo considerare terminata la nostra analisi”, mi ha detto la Carla l’ultima volta che ci siamo visti. A me non sembrava tanto di stare meglio, ma è pur vero che la nostra “analisi” è tutta basata su una falsa rappresentazione della realtà; lei pensa che io sia un pazzo che crede di essere un killer, mentre io so di essere veramente un killer che sta diventando pazzo per altri motivi, soprattutto l’ultimo in ordine di tempo. “Alla messa in scena parteciperà oltre a me, in veste di direttore del gioco, anche un altro paziente che eserciterà il ruolo di vittima. E’ ben inteso che la sua diagnosi è di schizofrenia acuta”. Il tizio pare che abbia il timore di essere intercettato dalla CIA, non si sa per quale motivo, e che la sua vita sia continuamente “in pericolo”. SAS:  Sua Altezza Stronzissima. A pensarci bene mi fa una grande tristezza l’idea di ridurmi ad inscenare un finto omicidio,  “Anche i killer  piangono”,  da granguignolesco che ero ora sono diventato una marionetta nello stesso teatrino di un povero relitto della società umana, quintessenza del disgraziato.

56.
Avrei  ancora tante altre pagine da scrivere in questo diario, perché vada come vada con questo psicodramma la mia vita è oramai un dramma davvero, da prima pagina in Cronaca Vera, e delle pastiglie non posso più fare a meno per riuscire ad accettarmi per quello che sono, nemmeno per digerire questa ultima “frittata” che mi ha cucinato Antonio, amara come il radicchio trevigiano. A domani mondo, questa sera niente miele per me.
***
Rapporto n. 25021978 da parte dell’agente nome in codice Painkiller  - 20 Ottobre 2012,
Milano.

Si comunica l’esito positivo della missione affidatami. Stop.
Segue rapporto. Stop.

Giacomo Lai, killer freelance meglio conosciuto come “Jack”alias “Il bello del quartierino” alias
“Filastrocca” di seguito “il soggetto”, catalogato dall’agenzia come - Rating pericolosità: AA+- ,
è stato terminato in data 19 cm alle ore 10:08. Il soggetto è stato  mantenuto sotto falsa  cura
psichiatrica presso la nostra sede di copertura in via Gian Galeazzo Sforza 17, Milano dalla data del 16 Agosto 2012 sino alla data del termine sovra indicata. Lai Antonio, nostro agente segreto di stanza a Cinisello Balsamo e consanguineo del soggetto, è stato attore fattivo nella buona riuscita dell’esito della missione. Il Lai Antonio, in virtù delle elevate arti di persuasione apprese presso le nostre scuole di specializzazione in Indocina  e, in seconda istanza, della mal posta  fiducia che riponeva  il soggetto nel medesimo,  ha abilmente  spinto il soggetto  stesso  a sottoporsi a visite periodiche presso la nostra sede di via Gian Galeazzo Sforza 17, Milano, con il fine di alleviare le ininterrotte crisi di ansia di cui il soggetto ha confidato al nostro agente soffrire da anni. Il nostro collaboratore, con adamantino senso del dovere, non ha esitato a cogliere nelle confidenze del soggetto uno spiraglio per potere dare avvio alla missione nelle more poi inscenate, considerando agli effetti nullo anzi infangante ogni legame con il fratello alla luce delle apprese  di lui attività criminali. Nelle citate sedute, con la sottoscritta sotto mentite spoglie di medico psichiatra, è stata praticata al soggetto la tecnica dell’ipnosi zurlina, con il preciso obiettivo di  estrapolare al soggetto ogni informazione utile alle nostre necessità, per il bene di Patria e della continua pace mondiale. Non era difatti funzionale alla nostra missione attivarsi con il termine del soggetto senza operare un solo tentativo di manipolazione della di lui mente, per carpire ogni utile segreto finalizzato alla nostra sicurezza. Il tentativo, effettuato tramite ipnosi in prima istanza ed in seguito indotto tramite autoconfessione scritta,  è  malauguratamente naufragato ad un  “Senza esito”.
Appurato che la corteccia cerebrale del soggetto si è rivelata impenetrabile nonostante le più alte tecniche di manipolazione in nostro possesso, è stata mia precisa indicazione avviare il temine del soggetto. Nella data sopra indicata, il soggetto è stato condotto in un’ala dello studio di via Gian Galeazzo Sforza 17, Milano all’ uopo insonorizzata, ove è stato incoraggiato ad inscenare una simulazione di omicidio per psicodramma (tecnica psicologica che abbiamo ipotizzato essere funzionale ai nostri fini) di fronte alla sottoscritta e ad un secondo paziente, il nostro agente scelto Abdul Karim Sukur alias “Il turco” sotto mentite spoglie. Non appena il soggetto si è avvicinato al nostro agente scelto impugnando  un ferro da maglia con  il preciso  intento di operare il falso omicidio,  “il turco” ha estratto dalla fondina  una Beretta modello Px4 Storm SD Type F  fusto acciaio silenziata di ordinanza, con la quale ha  inferto al soggetto un colpo mortale  nel  centro dell’osso frontale del cranio. A temine avvenuto, l’agente  Lai Antonio ha effettuato una perlustrazione nell’appartamento del soggetto, non rilevando altro da porre agli atti se non l’Allegato 1 al rapporto in corso. Nulla di rilievo è stato altresì riscontrato negli abiti indossati dal soggetto il giorno del suo termine, se non un biglietto nella tasca interna della giacca che riportava la seguente frase:

- Vedo la luna, vedo le stelle, vedo Caino che fa le frittelle, vedo la tavola apparecchiata,  vedo Caino che fa la “frittata” -

La carta, da analisi al microscopio, è risultata essere intrisa di acqua e di contenuto salino.


Allegato 1 – Scritti personali del soggetto 

giovedì 10 dicembre 2015

Oroscopo 2016: Gemelli.

Le previsioni del Cavaliere dello Zodiaco per il 2016: Gemelli



Ricordate un po' di mitologia greca? Atlante, figlio di Climene, è un gigante condannato a sorreggere sulle proprie spalle l'intera volta celeste. Voi Gemelli non dovrete sopportare così tanto, mica avete complottato contro il Re degli Dei dell'Olimpo, tuttavia per gran parte di quest'anno vi caricherete sul groppone Giove, astronomicamente e astrologicamente assai pesante, che va aggiungersi a Nettuno e a Saturno con tutti i suoi anelli. Non c'è da meravigliarsi se vi sentirete piantati a terra come chiodi.

Chiusi nel bunker.

Il vostro bunker è la vostra famiglia. Nettuno vi esorta a fare i pirla andando a cercare avventure prive di spessore. Non fatevi tentare: fino a settembre grandinerà dal vostro cielo e il posto migliore dove stare è con le persone che amate e che vi conoscono da tanto tempo. Niente colpi di testa, fugate i vostri dubbi, e se proprio non ce la fate a non sbagliare, almeno non commettete gli stessi errori di sempre. Sbagliate in modo creativo.

Tuta mimetica e coltello da combattimento.

Timbrate il cartellino, fate la vostra parte senza incrociare lo sguardo dei colleghi, cercate di non farvi notare troppo, se avete delle idee tenetele per voi: sono pessime idee. Nascondetevi nella vostra giungla come facevano i Viet Cong e sperate che nessuno vi trovi.
Purtroppo Giove è bastardo, quindi i problemi, sia economici che professionali, vi troveranno. A quel punto tirate fuori il coltellaccio e vendete cara la pelle.

E poi arriva settembre.

Vi sentirete come se la forza di gravità si fosse dimezzata, avrete più voglia di uscire di casa e di fare sport. Tirerete un respiro profondo e sarete consapevoli che la bufera è passata. Ovvio, ci saranno da mettere in ordine le cose spostate dal vento, ma lo farete sotto un cielo sereno.

martedì 8 dicembre 2015

Oroscopo 2016: Ariete.

Le previsioni del Cavaliere dello Zodiaco per il 2016: Ariete.






Quando un parco è disordinato, pieno di erbacce, con le siepi troppo troppo cresciute e gli arbusti mezzi arsi, ecco che bisogna chiamare il giardiniere per sradicare la zizzania, dare alle piante una forma ordinata, potare i rami secchi.
Ebbene, il giardino dell'Ariete è parecchio incasinato e Saturno ha già affilato le cesoie: sarà un anno di grandi fatiche ma, così come un albero ricresce più rigoglioso e forte dopo una buona potatura, anche voi uscirete più solidi da questo anno di cambiamento e più leggeri per esservi liberati di molte vecchie zavorre.

Certo,avrete bisogno di questa nuova forza a fine anno, visto che da ottobre Giove ce l'avrà con voi, e non è affatto un buon cliente.

L'amore, ma solo quello vero.

La vostra vita di coppia funziona bene? Funzionerà meglio. Siete soli e cercate il grande amore? Potete trovarlo. Al contrario, se la vostra convivenza ha qualche crepa, Saturno (è lui che mena le danze per buona parte dell'anno ) ci infilerà dentro un piede di porco e tenterà di demolirla: a questo pianeta piacciono solo le storie solide. Se siete di quelli che si annoiano a mangiare sempre la solita minestra, non disperate: Urano vi porta ispirazioni improvvise, colpi di genio. Ah, se le camere da letto potessero arrossire!

Lavoro: meglio la cicala.

Come la vedete una situazione stabile? Se lavorate e guadagnate a sufficienza vi andrà bene, altrimenti... Altrimenti bisogna aspettare l'estate, quando il cielo vi guarderà con un occhio più benevolo. Non potrete però cantare vittoria, perchè in autunno quel seccatore di Giove busserà alla porta e non porterà buone notizie. Tenete da parte qualcosa per gli imprevisti.

Corri, corri.

L'avete già capito vero? Sarà un anno molto difficile. Grandi fatiche e risultati che si vedranno solo a lungo termine, se siete abbastanza bravi. Per fortuna l'energia non vi manca (e nemmeno la determinazione, Arieti testoni) e potrete affrontare le vostre sfide in buona forma fisica. Attenzione alla fine dell'anno, rischiate di ingrassare troppo. Fate qualche bella corsa all'aperto. Disciplina.

Oroscopo 2016: Toro.

Le previsioni del Cavaliere dello Zodiaco per il 2016: Toro.




Avete presente la scena del film "007, licenza di uccidere"; quella in cui Ursula Andress esce dal mare con un bikini bianco lasciando tutto il mondo senza fiato? Se siete troppo giovani per ricordarla, allora andate a cercarvela su youtube, perchè è così che sarete nel 2016. Vi lascerete alle spalle il mare di affanni degli ultimi anni per emergere splendidi, perfetti, sotto questo cielo di pianeti sorridenti. Certo, nel primo trimestre Marte sarà fastidioso come il cane del vostro vicino che abbaia tutta la notte, ma che volete farci? In fondo è il pianeta della guerra.

Nuove lenzuola.

Vediamo di capirci bene, però: state emergendo ma non siete ancora fuori dall'acqua. Magari c'è questa storia che non vi decidete a chiudere, nonostante non abbia più nulla da dare, forse pensate ancora al vostro ex che non vi guarda neanche per sbaglio. Beh, sappiate che a un certo punto sfanculerete tutti e vi addentrerete spavaldi in una bolgia dantesca di divertimento, sguaiatezza e promiscuità. Se siete abituati a cambiare le lenzuola ogni volta che cambiate amante, quelle che avete non vi basteranno.

Affilate la falce.

Sì miei cari, è finalmente arrivato il tempo del raccolto. Sarà tanto più abbondante quanto più avete seminato negli ultimi anni, metterete un bel po' di fieno in cascina! Manovrare la falce può essere faticoso e richiede una certa abilità, ma vuoi mettere la botta di autostima quando, ancora tutto sudato e col fiato grosso, guardi sorridendo il tuo bel mucchio di grano? 

Non pensateci troppo.

Lo ripeto: non siete ancora usciti dal mare. Il richiamo di Nettuno è ancora forte, vi fa sognare isole lontane, mete irraggiungibili, sogni irrealizzabili. Venite fuori dall'acqua, orsù. Tutto quello che dovete fare è entrare nel 2016 come uno sceriffo entra nel saloon. Spalancate la porta, petto in fuori e mano al cinturone.


sabato 5 dicembre 2015

Il quarantesimo chilometro.





Faceva qualche esercizio di stretching, per quanto consentiva l’angusto spazio che aveva a disposizione in mezzo agli altri corridori. Attorno a lui c’era il gran vociare euforico di una folla che si appresta ad una grande impresa. Il clima era splendido, l’aria era fresca, non poteva capitare una giornata migliore. Indossava il pettorale numero 3577, e aveva una gran voglia di partire. Anna, la sua compagna, non era altrettanto entusiasta. “Ma sei sicuro? Vuoi farlo lo stesso?” Gli aveva chiesto con lo sguardo premuroso, prima che entrasse nelle gabbie. Che domande, certo che voleva farlo, ci mancherebbe altro! Si era allenato per mesi, aveva programmato le sue settimane e le sue giornate per arrivare preparato a quell’evento. Avrebbe partecipato a quella maratona, nonostante tutto. Tentò di sgombrare la mente ricontrollando la sua attrezzatura. Il cardiofrequenzimetro funzionava, il cronometro pure, le scorte alimentari erano al loro posto. Si allacciò per l’ennesima volta le scarpe, stringendo per bene. Adesso era concentrato, mancavano pochi minuti alla partenza e fra i partecipanti era calato un silenzio trepidante. Prima di quanto si aspettasse un colpo di cannone diede il via. Fu il boato più potente che avesse mai sentito, o almeno così gli sembrò. Fra le urla festanti del pubblico, l’esodo ebbe inizio, a migliaia si immisero nel percorso in un caotico scambiarsi di posizioni, secondo il ritmo che ognuno voleva dare alla sua gara. Dopo tre o quattro minuti impiegati per farsi largo tra la folla, trovò lo spazio che gli serviva e cominciò a far girare le gambe. Un centinaio di metri davanti a lui ballonzolava la maglietta gialla di un altro concorrente, con la scritta “Hard Rock” sulle spalle. Decise di accodarsi a lui, trovando facile sostenere la cadenza del suo passo. Sorrideva, provava una sensazione bellissima e liberatoria. Non pensava affatto a quello che era successo. Pensava solo a correre.




Al quinto chilometro osservò il suo cronometro. Stava filando a un ritmo più veloce di quel che aveva programmato. Troppo veloce. Temeva di pagarla nel tratto finale, quando le energie servono davvero. Se voleva arrivare al traguardo doveva risparmiarsi, doveva controllare l’impeto, ma non era facile, dopo tutto quella era la sua prima maratona. Chi l’avrebbe mai immaginato? Lui, tutto computer e scrivania, che si faceva quarantadue chilometri al trotto. Ripensò a com’era cominciata quella avventura, dieci mesi prima. Stava facendo la sua solita passeggiata nel parco quella domenica mattina, quando un ragazzo che faceva jogging lo superò saltellando elegantemente. Sarebbe piaciuto anche a lui correre, mantenersi in forma. Sì, doveva assolutamente farlo, e nel momento stesso in cui prendeva questa decisione, si pose anche l’obiettivo di portare a termine una maratona, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lui era fatto così, si faceva rapire dalle sue idee. Quella sera stessa, durante una cena a casa dei genitori, dichiarò la sua intenzione quasi senza prendersi sul serio. Ci scherzarono un po’ su, tra una forchettata di pasta e un boccone di arrosto, finché suo padre, con il suo solito volto di cemento, affermò: “Se ti conosco bene abbastanza, finirai per fermati al quarantesimo chilometro. Inizi un milione di progetti e non ne porti a termine nemmeno uno.”
Suo padre. Quel severo, esigente uomo distante. Non gli aveva mai concesso un riconoscimento in tutta la vita. Un osservatore indifferente. Peggio: un critico incontentabile.
Il giorno successivo diede inizio alle ricerche sui metodi di allenamento e fece la sua prima, breve corsa serale.

Dopo undici chilometri scomparve un piccolo dolore che si era manifestato ai muscoli tibiali. Ora andava tutto bene, la sua corsa era sciolta. I suoi tempi erano ancora troppo veloci e il cardiofrequenzimetro segnava battiti troppo elevati, tuttavia non si sentiva affaticato. Davanti a lui, mister Hard Rock era già in difficoltà, aveva rallentato, la sua maglietta gialla era sempre più vicina. Lo sorpassò in scioltezza, traendone una immensa soddisfazione. Pensò che forse era una di quelle giornate in cui ti riesce tutto bene. Come quella volta che incontrò Anna, la sua Anna. Fu tutto così naturale, quella sera: fu sufficiente uno sguardo per capire. Si avvicinò a lei con la certezza di piacerle, ed era vero. Trovò tutte le parole e gli argomenti giusti, la conquistò. L’affiatamento di quel primo incontro si trasformò in complicità nelle settimane successive, e ben presto divenne amore. Non si erano più lasciati, avevano anche pensato al matrimonio, avevano ipotizzato di avere figli, un giorno. “Chissà come sarebbero felici i nostri genitori di poter fare i nonni.” Gli diceva Anna, sorridendo, ogni volta che ne parlavano. Davvero, sarebbe stato meraviglioso, bisognava solamente aspettare il momento giusto, in un mondo così complicato. Ma il momento giusto per sposarsi non era mai arrivato, men che meno per fare figli. Mai negli ultimi otto anni.

Percorrendo il lungo rettilineo che iniziava al diciannovesimo chilometro si accorse di essere rimasto solo. Non c’era pubblico, nessun concorrente né davanti, né alle spalle. Solo un vigile, in fondo, che controllava che si svolgesse tutto bene in quel tratto fantasma.
Non era certo una novità per lui. La sua azienda lo mandava spesso in viaggio all’estero per fare i controlli di qualità del prodotto, e doveva passare intere settimane da solo, in paesi dove non conosceva nessuno. Per meglio dire: coloro che lo conoscevano, non lo trovavano simpatico. Come può starti simpatico uno che ti fa le pulci tutte le volte che si presenta alla tua porta? Ad ogni modo la solitudine non era una condizione che lo spaventava. Nel silenzio della camera singola dell’albergo di turno, la sera, poteva leggere senza distrazioni. I suoi preferiti erano i romanzieri russi. Tolstoj in particolare. Si sentiva bene anche passeggiando nei centri cittadini stracolmi di persone che non potevano riconoscerlo, amava le vie commerciali, sperimentava le specialità culinarie del luogo. E poi lontano da casa si sentiva di buon umore, come alleggerito da una zavorra mentale. Questo nei primi giorni, poi, trascorsa una settimana, subentrava la nostalgia, forse però sarebbe stata meglio chiamarla in un altro modo: era più l’incombenza di un dovere, il richiamo delle radici. Due anni prima, l’amministratore dell’azienda l’aveva convocato nel suo ufficio: gli aveva fatto i complimenti per il suo lavoro, e gli aveva detto che intendeva proporgli di assumere il ruolo di dirigente aziendale, a capo del settore qualità. Lusinghiero, certo. Ma quanto tempo avrebbe dovuto dedicare al lavoro? Quante responsabilità, quanti pensieri sarebbero derivati da questo avanzamento di carriera? La sua vita ne sarebbe uscita di certo stravolta. Inoltre rischiava di fare il passo più lungo della gamba, di non essere in grado di reggere la pressione. Meglio continuare a fare quel che stava già facendo, era più sicuro. Rifiutò l’offerta, nella certezza di aver fatto la cosa giusta. Non aveva mai raccontato a nessuno di quella scelta, non alla sua famiglia, e neppure ad Anna.
Sfilò davanti al vigile che lo seguiva con il suo sguardo impassibile, alla fine del rettilineo. Dietro la curva che stava affrontando vide il punto di rifornimento, rallentando appena afferrò un bicchiere di acqua e un integratore di sali minerali. Ne aveva davvero bisogno, cominciava a sentire una certa secchezza in fondo alla gola.




La fame lo colse al ventottesimo chilometro. Era normale che fosse così. Come prevedeva il suo programma di gara, si era svegliato tre ore prima della partenza e aveva fatto una colazione abbondante, a base di fette biscottate integrali e miele, senza farsi mancare qualche grammo di prosciutto. Circa cinquecento calorie in carboidrati e una piccola dose di proteine. Dopo il chilometro venti aveva mangiato le maltodestrine in gel, al rifornimento successivo buttò giù una barretta alla frutta, ora era quasi giunto il momento di utilizzare la seconda busta di gel. Durante gli allenamenti aveva testato tutti i gusti esistenti in commercio, ma nonostante i volonterosi tentativi, nessuno era ancora riuscito a rendere quella roba meno disgustosa. Cominciava a sentire le gambe un po’ pesanti, il fiato era buono, sebbene più affannoso di prima, il ritmo era leggermente calato. D’altra parte era già ben oltre la metà della gara. Aveva immaginato di essere più stanco, a questo punto. Si persuase che avrebbe potuto tagliare il traguardo in meno di quattro ore senza tanti problemi. Niente male per una matricola. Una matricola, già. Gli tornarono in mente i primi tempi alla facoltà di statistica, quando era convinto che sarebbe riuscito a laurearsi in corso. In effetti era partito bene, il primo anno aveva fatto il percorso netto: trenta in tutti gli esami. Poi aveva perso l’entusiasmo, non rispettava più il programma di studi. Aveva completato gli esami dopo sette anni, ma non aveva mai finito di preparare la tesi. Aveva piantato lì e non sapeva nemmeno lui perché. Si vede che era destino. Guardò a terra, i suoi piedi si alternavano sull’asfalto, a ogni passo la fatica cresceva, e cresceva la consapevolezza che suo padre aveva ragione. Lui era uno di quegli uomini che mollano sempre.

Al trentatreesimo chilometro lo stomaco lo tradì. Il gel ballava su e giù come una pallina all’interno di un flipper. I tentativi di digestione si traducevano in rigurgiti acidi e gli rendevano difficile anche una respirazione regolare. Doveva saperlo che sarebbe stato lo stomaco. Maledetto, maledetto stomaco, voleva portagli via anche la maratona? Non bastava che si fosse già preso suo padre? Suo padre, cinque mesi prima, aveva cominciato ad avere problemi di digestione e dolori all’addome sempre più frequenti e più forti. Al primo esame lo trovarono: un tumore maligno, aggressivo, rabbioso. Sua madre piangeva, quando gli diede la notizia. Suo padre lo osservava, serio, seduto con i gomiti poggiati al tavolo, probabilmente sperduto, per la prima volta in vita sua. Anna corse ad abbracciare quell’uomo finito. Lui no, scosse il capo, senza dir nulla, uscì dalla porta e prese a correre, spingendo forte sulle gambe. Spinse finché poteva, finché rimase privo di fiato. Si piegò con le mani poggiate sulle ginocchia, ansimando. Suo padre sarebbe morto. Il tumore era incurabile. Non c’era niente da fare. E adesso, in questa corsa solitaria, cosa poteva fare? Non riusciva più a mantenere la concentrazione, l’andatura era scomposta. Le gambe gli pesavano sempre più, e mancavano ancora quasi dieci chilometri alla fine. Le sue energie si sarebbero consumate inesorabilmente come il corpo di suo padre? Quel corpo magrissimo, snervato. Il fiero volto di cemento trasformato in un aquilone di ossa e pelle, senza che ci fosse alcun vento a sostenerlo. La forza di suo padre si era velocemente annullata, la sua vitalità spenta. Ben presto non era più stato capace di reggersi in piedi da solo. Sarebbe successo anche a lui? Sarebbe stramazzato rovinosamente sulla strada? In questa corsa come nella vita, un perdente.

Al trentacinquesimo chilometro era una nave alla deriva. L’andatura lentissima, il busto sistemato in diagonale rispetto al bacino, la spalla destra sempre protesa in avanti, mentre il braccio sinistro, invece di accompagnare l’azione delle gambe, dondolava pesantemente lungo il fianco, facendosi trasportare come fosse un clandestino. Improvvisamente sentì un forte senso di nausea. Forse era la volta buona che si toglieva di dosso quel maledetto gel. Tentò di assecondare l’impulso, ma fu inutile. Peggiorò solo la situazione. Per lo sforzo, ora lo stomaco gli faceva un gran male. Rise di se stesso: non era capace nemmeno di vomitare. Era diventato una caricatura. Negli ultimi tempi le mansioni più semplici si trasformavano in disastri. Quando suo padre non era più in grado di muoversi dal letto, poco prima della fine, lui trascorse alcune sere a vegliarlo. Tentavano ancora di fargli mangiare qualcosa, ma la malattia era troppo avanzata. Regolarmente rimetteva tutto quel che ingeriva. Quella volta non fu diverso; afferrò la padella con l’intento di svuotarla, ma alzandosi perse la presa e ribaltò tutto sul letto. Suo padre lo fissò silenziosamente. Quella poca energia che gli era rimasta, la mise tutta in quello sguardo severo. Fu il rimprovero più duro che avesse mai ricevuto. Tirò un respiro profondo nella vana speranza che lo stomaco smettesse di dolergli. I suoi occhi gli bruciavano terribilmente, ma era il sudore. Era solamente il sudore.

Fu al chilometro trentotto che la crisi divenne insostenibile. Si trascinava avanti, ma non seguiva più una linea retta. La sua vista era offuscata, ai crampi allo stomaco si erano aggiunti quelli al retro coscia e ai polpacci. Anche psicologicamente non ce la faceva più: continuava a ripetersi che era il momento di ritirarsi, che non valeva la pena di patire tanto per una stupida corsa. Spingeva ancora le sue povere gambe nella speranza di riprendersi, ma era sfinito, prosciugato, annichilito. Nemmeno le grida di incitamento che gli lanciava il pubblico erano di aiuto, al contrario, gli davano fastidio. Tentò di isolarsi, non funzionò. Le odiava, quelle maledette scimmie urlatrici, capaci solo di guardare e dimenarsi. Ci provassero loro a trovarsi in quella situazione. Fece un patto con le sue gambe: portatemi fino alla fine, e vi prometto che non farò un solo passo oltre la linea del traguardo. Vi prometto una seduta di massaggi che vi rimetteranno a nuovo, e almeno una settimana di riposo. Risposero con un’acuta sinfonia di crampi. Poi, come un prestigiatore apparso dal nulla, al suo fianco si ripresentò mister Hard Rock con la sua maglietta gialla. Era stato più lungimirante, lui. Aveva ridotto il passo per non sfiancarsi troppo presto. Ora lo stava distaccando inesorabilmente, con regolarità, era già alcune decine di metri più avanti. Aveva gestito meglio la propria gara, aveva rispettato il programma che si era fissato. Ecco cosa succede ad essere troppo impulsivi: si cominciano un milione di cose e non se ne finisce nessuna. Dove l’aveva sentito dire? Smise di correre e cominciò a camminare. Le gambe gli tremavano, ogni passo era una sofferenza. Guardò il suo cronometro: le quattro ore erano appena trascorse, aveva fallito il suo obiettivo, a che serviva continuare ancora? Si fermò, appoggiò entrambe le mani a una transenna, con la testa china e lo sguardo di un uomo sconfitto. Il sudore gocciolava copioso dalla sua fronte, formando piccole macchie scure sulla strada. Potevano sembrare anche lacrime. Si domandò se fosse giusto sfogarsi, in quella situazione. No, non era dignitoso. Rimase fermo un paio di minuti tentando di trattenere il pianto. In fondo era solo un altro dei suoi tanti fallimenti; niente laurea, niente carriera, niente nipotini per il babbo. Cosa poteva importare se finiva o no quella maledetta maratona? Cosa sarebbe mai cambiato nel tagliare il traguardo? Non capiva nemmeno perché aveva deciso di partecipare, nello stato d’animo in cui si trovava. Aveva ragione Anna, avrebbe fatto meglio a restare a casa, per elaborare il lutto. Non avevano nemmeno ancora celebrato il funerale. Cosa ci faceva lì?
Tre giorni prima suo padre aveva alzato il sottilissimo braccio per chiamarlo vicino al letto. Non aveva quasi più la forza di parlare, ma si sforzò e gli fece una domanda: “Negli ultimi giorni hai trascorso molto tempo qui, non ti alleni più per la maratona?”
“Manca poco alla gara, sto facendo lo scarico. In pratica mi riposo, recupero le energie.”
“Come vorrei poter assistere, però temo che non riuscirò a soddisfare la mia curiosità. Mi sa che sono io quello che deve mollare, questa volta. Non ce la faccio più. Mi piacerebbe proprio sapere cosa sceglierai di fare, quando arriverai al quarantesimo chilometro.” Furono le ultime parole che pronunciò prima di morire, la notte successiva.
Mentre si accingeva ad abbandonare il circuito, alzò lo sguardo lungo il tratto di strada che aveva rinunciato a percorrere. Ed ecco che lo vide, a non più di trecento metri da lui, a contrassegnare l’ultima stazione per i rifornimenti, il cartello con sopra quel numero.
Quaranta.
Che cosa sceglierai di fare al quarantesimo chilometro?

Camminò, prima piano, poi sempre più velocemente, fino ad arrivare in corrispondenza del cartello. Lo guardò senza fermarsi, sputò per terra, strinse i denti e ricominciò a correre verso il traguardo.