giovedì 17 dicembre 2015

Glock.

Glock.



Racconto 3° classificato al concorso Giallo Miele 2012



1.
Ho preso la padella e con il mestolo di legno ho messo il fricandò nel piatto fondo. Il profumo dei peperoni ha dato una scossa al mio torpore. Prima di versare il contenuto nel piatto, ho letto il nomedel fiore che vi è disegnato: Ophrys speculum, un’orchidea. Per chi non lo sapesse le orchidee non sono un fiore, ma una filosofia. Io non sono né un fiore e tantomeno un filosofo invece, per cui non riesco a coglierne il significato metafisico. Le rispetto, per motivi che non riguardano l’aspetto puramente estetico o legato alla difficoltà nella coltura, ma non me ne intendo. So per sentito dire tra l’altro  che  vengono utilizzate per scopi terapeutici, come emolliente consigliato nelle diarree infantili. Perché lo so?, chi lo sa…bisogna pur passare il tempo e nella nostra era moderna il personal computer ti dà la possibilità di farti una cultura sommaria sulla destra e sulla manca, sapendo un poco di tutto  e un cazzo di niente. Forse lo so perché di riffa o di raffa penso che la diarrea sia lo stato mentale che al momento mi accompagna, in questo luglio afoso. Sono un killer, professionista. Come tutte le persone di questo mondo ho una testa con capelli sopra, non comune a tutte le persone del mondo. Intendo non che la mia testa sia sopra la media di dimensione o con un quoziente intellettivo  alla Sharon Stone  (che  pare  lo abbia alto) ma che ho i capelli. Ciò non appartiene alla maggioranza degli uomini della mia età. Sono un killer, professionista, con il vizio di pensare che avere i capelli vuol dire avere le storia, per un uomo. La propria storia, a portata di
specchio. Perché solo grazie ai capelli  è possibile il confronto tra quando tutto ti andava per il verso giusto, ed erano corvini come il sedere di un cavallo da dressage, e quando tutto ti va di traverso come un uovo sodo, e sono bianchi come un martini. Bianco come il mio colletto, da impiegato. Ho un’ossessione, posso dire che non sono le orchidee o la peperonata, ma il fatto che non posseggo la fortuna di quelli che riescono a fare il proprio amato mestiere tutte le mattine. Non ho la fortuna di potere pianificare le ferie o le festività soppresse, il natale e il cucù, che non vuol dire nulla se non la scelta di prendersi un permesso per farsi i fatti propri. Perché io non posso fare il killer tutti i giorni, purtroppo. Cosa che mi piacerebbe davvero, il sogno realizzato da quando ero ragazzo mentre leggevo Segretissimo. Io le ferie le devo pianificare in ufficio, la mia copertura, per non lasciare dei buchi sulle attività; mi farei un buco in testa a pensarci, se non fosse che la prima regola del killer è quella di non farsi ammazzare. Tanto meno dalla società moderna.

2.
Non poter esercitare giornalmente la professione  in cui sei il migliore ti fa diventare un po’
paranoico. Che io sia il migliore lo penso da solo, non c’è una classifica dei killer come all’Olimpiade: per fare certi mestieri bisogna essere egocentrici e bisogna sopravvivere, anche a costo di essere scortesi. Non soffermarsi a dire ad una vittima “Coraggio, fatti ammazzare”, ma sparare senza fiatare. Alcuni romantici lasciano un cadeau di ricordo, alla Occhi di Gatto, ma dopo un po’ muoiono. Io no. Io non sono un romantico e ci tengo a vedere i miei capelli diventare tutti bianchi. Sono uno che porta a casa il risultato ed ha come obiettivo solo di piacere a sé stesso. Se non sono egocentrico del resto mi accoppano.

3.
Dicevo della paranoia. Per dare un’idea sono diventato amante della Formula 1 perché ho scoperto che un  pilota si chiama Glock.  Tutt’altro che un campione, perciò  lasciai perdere. Non  tutte le Glock escono col buco. L’importante  però  è che la mia ce  l’abbia, il buco: quello della canna intendo.

4.
La mia psichiatra, che mi dà dello schizofrenico, mi consiglia di scrivere per alleviare le sofferenze di credersi un killer a tempo parziale; quando non ho davanti a me un obiettivo, da accoppare, il mio obiettivo si riduce a riempire delle pagine a mo’ di purgante, per purificare la mia mente obnubilata dai pensieri “malavitosi”.

5.
“La smetta di pensare di vivere a Marsiglia”, mi è solita dire la Carla. Come se s’ammazzasse solo a Marsiglia. Ma la vita è un parapiglia anche se non si vive a Marsiglia, così come ci sono bari anche fuori da Bari. Vai a farlo capire alla dottoressa.
Bella donna, sulla quarantina anche lei, i cui capelli definirei rosso magenta se non fossi daltonico. Magari sono castani castagna. Me l’ha consigliata Antonio, il mio unico vero amico, anche perché è mio fratello.  A lui ho confidato la mia  trama, raccontandogliela un po’ naif, per non scoprirmi troppo. Tanto sono certo che mi prende per eccentrico all’inverosimile e non  gli dà credito di un centesimo. E poi è riservato di natura. Mi ha sempre visto come l’anello di congiunzione tra l’uomo e il pagliaccio, uno nato per far ridere intendo, ma che non è mai riuscito a dare libero sfogo alla sua reale natura. Per un certo verso ci ha preso,  e preoccupato ha fatto quello che un buon fratello maggiore deve al minore:  aiutarlo. In questo caso mandandomi da una strizzacervelli amica sua.
“Hermano, fammi ‘sto favore va. Manco la paghi che c’ho degli affari con quella. Sai, un po’ di qua un po’ di là, meglio tenere il piede in più scarpe”, e mi ha strizzato l’occhio. Diavolo pure lui. Mica me l’aspettavo che c’avesse di queste tresche. Da uno che fa il broker d’assicurazioni, al massimo, t’aspetti che gli si macchi la camicia di pezze d’ascella.

6.
Buonanotte caro diario, ci vediamo domani, credo di aver scritto a sufficienza stasera, purtroppo mi stanco a fare quello di cui non sono capace e non sono un killer sentimentale, così come mi stanco di te, che dovrai essere la mia coperta di Linus.
Silenzio, poi: “Bang Bang!”.
“Cos’è successo?”.
Niente, creavo solo un po’ di suspense per me stesso…

7.
Siccome non sono uno scrittore, ti dovrai  sorbire ripetizioni, appiattimenti della storia  o veloci
accelerate di ritmo - scusa sono sotto psicofarmaci - oppure a volte perifrasi quali “'l’tristo sacco /che merda fa di quel che si trangugia” per indicare lo stomaco ovvero volgari parolacce da scaricatore di fronte ad un porto. Quando ero a scuola ero forte nella scrittura dei temi, ma dovevo sviluppare il titolo per dare la mia opinione al maestro; che poi a lui non piacesse, è un’altra storia. Diceva sempre a mia madre che stavo alla genialità come un tonno sta al delfino… è chiaro? Ora, forse è vero che non ero un genio, ma un bambino deve per forza essere un genio per prendere sei in un saggio di italiano? A me piace più pensarmi come un pesce siluro, che non guarda in faccia a nessuno  quando deve arrivare alla sua preda. Leggende dicono che  fagociti anche cani, sommozzatori, scarpe  Prada e via dicendo. E’ quindi un pesce democratico, che non concede privilegi alla propria preda, quello di sentirsi predata perché importante. Diversa è la nostra società: anche e soprattutto nel mio mestiere, ci sono maschi alfa e maschi beta, di maschi omega è pieno il mondo ma non serve ammazzarli, la plebaglia fa sempre comodo ai capibranco. Quindi, non divaghiamo appunto, scusa il pluralia maiestatis, ma hai già capito che soggetto sono, anche perché te l’ho detto io. “Io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi…e nelle unghie, allora…ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona”.
Ora, sei d’accordo con questa frase?, non l’ho scritta io naturalmente, e sottolineo il naturalmente oltreché l’io. Ma vorrei solleticare la  tua intelligenza. Ogni tanto quindi riporterò una citazione, per farti pensare a me anche quando ti avrò chiuso Diciamo che, visto che mi danno dello schizofrenico, voglio farti sentire perseguitato un po’ anche a te. Ma… non divaghiamo per davvero. La Carla mi ha consigliato di tenere un diarietto, una pagina al giorno, per scrivere il mio zibaldone di idee, con il preciso fine di aiutarmi a liberare la mente dall’idea di essere un killer inattivo e quindi frustrato. Il fatto che mi porta a farlo sul serio, lo scrivere intendo, è che io sono frustrato  per  davvero! Perché  oltre a non potere  esercitare il mio mestiere quotidianamente  lavoro sotto copertura per una banca, come analista interno. Questo comporta  alla mia frustrazione originale  anche la frustrazione tipica dell’impiegato medio, che definirei meglio come impiAgato, tanto per rendere l’idea.  La vita dell’impiAgato è come una sciarada monca in cui si deve scoprire solo quale lettera sostituire alla “X” nella parola “MerXa”. Non so se fila il ragionamento, ma ho accettato la scelta di scrivere. E poi una paginetta al giorno non è niente. E’ dura dover timbrare ogni giorno un cartellino se sai di essere più svelto di Terence Hill a maneggiare la colt. Che colpi potrebbero partire tutti i giorni da questa mano, la mano sinistra del diavolo, bang. Mi parte un sorriso ora, fugace come una passante che non rivedrai mai più. Meglio lasciare perdere i sogni, sennò dal nervoso mi parte un ponte.

8.
Certo  che scrivere  a ruota libera non  è poi tanto difficile.  Diverso è provare a descriversi.
Fisicamente, caratterialmente, geomorfologicamente (certe persone hanno una pelle nel viso che sembra il lascito di un’eruzione del Teide), “Porta gli occhiali, il cappello com’è: ma è Jack, ecco chi è!”. Arrivare alla buona rappresentazione di Jack non è poca cosa, in questo caso, che poi non è un caso, ma più che altro un caos. Cambiando l’ordine degli addendi il risultato cambia eccome. Prova a dare un giudizio, anche solo con un aggettivo differente, e vedrai che tutto scorre diverso, dammi un aggettivo d’appoggio e solleverò il mondo del tuo giudizio:

Jack era alto. Barba rasata con i baffi alla siciliana, sguardo sciupato, i capelli neri con  alcuni
ciuffi grigi aggiustati con una riga retrò, qualche chilo di troppo sul ventre.

Jack era bassetto. Barba rasata con i baffi alla siciliana, sguardo sciupato, i capelli neri con alcuni ciuffi grigi aggiustati con una riga retrò, qualche chilo di troppo sul ventre.

Nel primo caso si parla di un uomo che ha la più importate caratteristica che gli fa possedere mezza bellezza. La restante parte della descrizione è un corredo di nozze, le nozze coi fichi secchi; non si dice l’età, ma dev’essere sulla quarantina, ha lo sguardo sciupato, perché sciupa le femmine o la vita  appresso a qualcosa d’altro non si sa. E’un esteta, amante di sé stesso, porta i baffi curati, questo è conclamato.  I capelli, ne abbiamo già parlato in precedenza.  Alto e sciupato dagli avvenimenti è già affascinate di per se. Bassetto e sciupato sembra la descrizione di un tappeto turco di un vecchio hamman. Ecco, l’uomo del secondo caso nella mia testa è per esempio un turco, stanco per la giornata passata a scaricare e caricare datteri al mercato, che porta i baffi sì, ma per tradizione e non per estetica e li ha alla siciliana perché è mezzo glabro sul viso. E’ sciupato come l’altro, ma dalla quotidianità. Entrambi hanno qualche chilo in più, ma io perché non si è mai visto un killer che beve latte, solo nel cinema. Il turco perché la sera mangia sino all’orlo per non moriresenza sapore. Di aglio, che tiene lontani i vampiri della vita.

9.
Sono un killer, professionista, il cui nome in codice è Jack. Il mio vero nome però è Giacomo Lai.

10.
“Io voglio alzarmi ora, e voglio andare, andare ad Innisfree, e costruire là una capannuccia fatta d’argilla e vimini: nove filari e fave voglio averci, e un alveare, e vivere da solo nella radura dove ronza l’ape”. Quanto mi ha fatto compagnia la musicalità di questi versi di Yeats nel corso della mia vita. Io ape regina della mia famiglia, il più piccolo e il più venerato. Da sempre mangio miele a man bassa, forse nell’errore di credermi immortale come gli dei dell’antica Grecia, gli unici che potevano cibarsi di ambrosia a quei tempi. Io che ne ho bisogno davvero per sperare di alzarmi dal mio letto la mattina, e non svegliarmi invece in un letto di sangue. Seppur dolce, non è mai divino come il miele.

50.
Credo di non farcela più. Ho strappato tante pagine, un raptus. Due mesi di scritture mie personali. Ho il mio motivo oltre al solito, ed è tremendo. Sfogo: Mi sembra di scrivere il mio coccodrillo. La mia estrema unzione. Il mio eterno riposo, che donerai a me o Signore, e risplenda a lui il fuoco perpetuo delle fiamme blu dell’inferno.  Amon. Termino questo necrologio con la storpiatura dell’amen, una blasfemia forse, ma non voglio che “così sia”. Prosit anzi, alla mia salute dovrei brindare, che sono ancora nel fiore degli anni ma stanziato in una stanza buia e ancora distanziato dallo zio Sam, che non mi dice più “I want you” per fare il mio dovere, nemmeno ora che non è necessario un mandante.

51.
Ho  preso l’accendino  ed ho  acceso il gas.  Una fiammata mi ha  cotto qualche pelo del braccio, espandendo un profumo di pelle di pollo abbrustolita che ha coperto quello del mio dopobarba denim, acre ed alcoolico per l’uomo che non deve chiedere mai. Io infatti non ho mai chiesto niente a nessuno, sono gli altri che mi cercano per fare fuori degli altri ancora. La pubblicità è la vera sesta arte. Abbassata la fiamma, mi sono reso conto di essere mortale  per davvero.  Ora lo so:  la mia recente disillusione è riuscita a togliermi il giubbetto antiproiettile e rendermi già vulnerato. Sono andato in bagno e ho preso un ferro per fare la maglia, comperato il giorno prima in un vecchio negozio in via Belmeloro. La ragazza che me l’ha venduto non mi ha chiesto il perché o il percome un uomo si è preso la briga di comperare un oggetto tipicamente utilizzato dalle donne. Una persona riservata. Non ce ne sono tante al giorno d’oggi. Ho appoggiato il ferro sul fornello, metallo contro metallo. Bene, il gioco è fatto, quanto è semplice farla finita se uno vuole farlo in silenzio, seduto sul divano di casa con della buona musica. Gian Maria Testa, il suo caldo sussurro e i pizzichi di chitarra mi è sembrato adatto. Rispettoso ed educato, o meglio edulcorante. E’ così semplice andare nei campi elisi che basta perforarsi un polmone con un ferro da maglia incandescente. Lo si può fare da soli, senza aiuto. Self made killer. E’ molto doloroso, una scelta per uomini veri, io infatti uso il denim, non per mezzeseghe che si rifanno le sopracciglia e poi si passano il Lasonil sopra perché gli brucia.

52.
Ho pensato a questo modo per inscenare un omicidio per la mia prossima terapia suggerita dalla Carla. Lo psicodramma. Stavo quasi per prenderci gusto alla fine, meno male che Testa ha finito di cantare e mi sono rimesso la testa sulle spalle. La condizione in cui mi trovo è proprio fuori dal tempo. Distortion.

53.
Quando Carla ha parlato dello psicodramma mi è venuto mezzo da ridere. Per rispetto del ruolo naturalmente hanno riso solo i miei occhi: I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi che tu venga all'ospedale o in prigione nei tuoi occhi porti sempre il sole.

54.
“E’ una terapia di gruppo ideata da J. Levi Moreno. Si inscena un gioco drammatico e si mira a sviluppare la spontaneità dei pazienti facendo emergere i loro vissuti personali, grazie a improvvisazioni sceniche. Il  "direttore del gioco" è lo psicoterapeuta che analizza tutto quanto accade”, mi ha spiegato la Carla. Sono proprio un ignorante, io al massimo potrei citare Levi Strauss, ovvero Michael J. Fox in “Ritorno al futuro”. La Carla finito di parlare si  è alzata  e si  è guardata i jeans soddisfatta, riflesso incondizionato o condizionato?

55.
“Giacomo, con questa ultima terapia possiamo considerare terminata la nostra analisi”, mi ha detto la Carla l’ultima volta che ci siamo visti. A me non sembrava tanto di stare meglio, ma è pur vero che la nostra “analisi” è tutta basata su una falsa rappresentazione della realtà; lei pensa che io sia un pazzo che crede di essere un killer, mentre io so di essere veramente un killer che sta diventando pazzo per altri motivi, soprattutto l’ultimo in ordine di tempo. “Alla messa in scena parteciperà oltre a me, in veste di direttore del gioco, anche un altro paziente che eserciterà il ruolo di vittima. E’ ben inteso che la sua diagnosi è di schizofrenia acuta”. Il tizio pare che abbia il timore di essere intercettato dalla CIA, non si sa per quale motivo, e che la sua vita sia continuamente “in pericolo”. SAS:  Sua Altezza Stronzissima. A pensarci bene mi fa una grande tristezza l’idea di ridurmi ad inscenare un finto omicidio,  “Anche i killer  piangono”,  da granguignolesco che ero ora sono diventato una marionetta nello stesso teatrino di un povero relitto della società umana, quintessenza del disgraziato.

56.
Avrei  ancora tante altre pagine da scrivere in questo diario, perché vada come vada con questo psicodramma la mia vita è oramai un dramma davvero, da prima pagina in Cronaca Vera, e delle pastiglie non posso più fare a meno per riuscire ad accettarmi per quello che sono, nemmeno per digerire questa ultima “frittata” che mi ha cucinato Antonio, amara come il radicchio trevigiano. A domani mondo, questa sera niente miele per me.
***
Rapporto n. 25021978 da parte dell’agente nome in codice Painkiller  - 20 Ottobre 2012,
Milano.

Si comunica l’esito positivo della missione affidatami. Stop.
Segue rapporto. Stop.

Giacomo Lai, killer freelance meglio conosciuto come “Jack”alias “Il bello del quartierino” alias
“Filastrocca” di seguito “il soggetto”, catalogato dall’agenzia come - Rating pericolosità: AA+- ,
è stato terminato in data 19 cm alle ore 10:08. Il soggetto è stato  mantenuto sotto falsa  cura
psichiatrica presso la nostra sede di copertura in via Gian Galeazzo Sforza 17, Milano dalla data del 16 Agosto 2012 sino alla data del termine sovra indicata. Lai Antonio, nostro agente segreto di stanza a Cinisello Balsamo e consanguineo del soggetto, è stato attore fattivo nella buona riuscita dell’esito della missione. Il Lai Antonio, in virtù delle elevate arti di persuasione apprese presso le nostre scuole di specializzazione in Indocina  e, in seconda istanza, della mal posta  fiducia che riponeva  il soggetto nel medesimo,  ha abilmente  spinto il soggetto  stesso  a sottoporsi a visite periodiche presso la nostra sede di via Gian Galeazzo Sforza 17, Milano, con il fine di alleviare le ininterrotte crisi di ansia di cui il soggetto ha confidato al nostro agente soffrire da anni. Il nostro collaboratore, con adamantino senso del dovere, non ha esitato a cogliere nelle confidenze del soggetto uno spiraglio per potere dare avvio alla missione nelle more poi inscenate, considerando agli effetti nullo anzi infangante ogni legame con il fratello alla luce delle apprese  di lui attività criminali. Nelle citate sedute, con la sottoscritta sotto mentite spoglie di medico psichiatra, è stata praticata al soggetto la tecnica dell’ipnosi zurlina, con il preciso obiettivo di  estrapolare al soggetto ogni informazione utile alle nostre necessità, per il bene di Patria e della continua pace mondiale. Non era difatti funzionale alla nostra missione attivarsi con il termine del soggetto senza operare un solo tentativo di manipolazione della di lui mente, per carpire ogni utile segreto finalizzato alla nostra sicurezza. Il tentativo, effettuato tramite ipnosi in prima istanza ed in seguito indotto tramite autoconfessione scritta,  è  malauguratamente naufragato ad un  “Senza esito”.
Appurato che la corteccia cerebrale del soggetto si è rivelata impenetrabile nonostante le più alte tecniche di manipolazione in nostro possesso, è stata mia precisa indicazione avviare il temine del soggetto. Nella data sopra indicata, il soggetto è stato condotto in un’ala dello studio di via Gian Galeazzo Sforza 17, Milano all’ uopo insonorizzata, ove è stato incoraggiato ad inscenare una simulazione di omicidio per psicodramma (tecnica psicologica che abbiamo ipotizzato essere funzionale ai nostri fini) di fronte alla sottoscritta e ad un secondo paziente, il nostro agente scelto Abdul Karim Sukur alias “Il turco” sotto mentite spoglie. Non appena il soggetto si è avvicinato al nostro agente scelto impugnando  un ferro da maglia con  il preciso  intento di operare il falso omicidio,  “il turco” ha estratto dalla fondina  una Beretta modello Px4 Storm SD Type F  fusto acciaio silenziata di ordinanza, con la quale ha  inferto al soggetto un colpo mortale  nel  centro dell’osso frontale del cranio. A temine avvenuto, l’agente  Lai Antonio ha effettuato una perlustrazione nell’appartamento del soggetto, non rilevando altro da porre agli atti se non l’Allegato 1 al rapporto in corso. Nulla di rilievo è stato altresì riscontrato negli abiti indossati dal soggetto il giorno del suo termine, se non un biglietto nella tasca interna della giacca che riportava la seguente frase:

- Vedo la luna, vedo le stelle, vedo Caino che fa le frittelle, vedo la tavola apparecchiata,  vedo Caino che fa la “frittata” -

La carta, da analisi al microscopio, è risultata essere intrisa di acqua e di contenuto salino.


Allegato 1 – Scritti personali del soggetto 

giovedì 10 dicembre 2015

Oroscopo 2016: Gemelli.

Le previsioni del Cavaliere dello Zodiaco per il 2016: Gemelli



Ricordate un po' di mitologia greca? Atlante, figlio di Climene, è un gigante condannato a sorreggere sulle proprie spalle l'intera volta celeste. Voi Gemelli non dovrete sopportare così tanto, mica avete complottato contro il Re degli Dei dell'Olimpo, tuttavia per gran parte di quest'anno vi caricherete sul groppone Giove, astronomicamente e astrologicamente assai pesante, che va aggiungersi a Nettuno e a Saturno con tutti i suoi anelli. Non c'è da meravigliarsi se vi sentirete piantati a terra come chiodi.

Chiusi nel bunker.

Il vostro bunker è la vostra famiglia. Nettuno vi esorta a fare i pirla andando a cercare avventure prive di spessore. Non fatevi tentare: fino a settembre grandinerà dal vostro cielo e il posto migliore dove stare è con le persone che amate e che vi conoscono da tanto tempo. Niente colpi di testa, fugate i vostri dubbi, e se proprio non ce la fate a non sbagliare, almeno non commettete gli stessi errori di sempre. Sbagliate in modo creativo.

Tuta mimetica e coltello da combattimento.

Timbrate il cartellino, fate la vostra parte senza incrociare lo sguardo dei colleghi, cercate di non farvi notare troppo, se avete delle idee tenetele per voi: sono pessime idee. Nascondetevi nella vostra giungla come facevano i Viet Cong e sperate che nessuno vi trovi.
Purtroppo Giove è bastardo, quindi i problemi, sia economici che professionali, vi troveranno. A quel punto tirate fuori il coltellaccio e vendete cara la pelle.

E poi arriva settembre.

Vi sentirete come se la forza di gravità si fosse dimezzata, avrete più voglia di uscire di casa e di fare sport. Tirerete un respiro profondo e sarete consapevoli che la bufera è passata. Ovvio, ci saranno da mettere in ordine le cose spostate dal vento, ma lo farete sotto un cielo sereno.

martedì 8 dicembre 2015

Oroscopo 2016: Ariete.

Le previsioni del Cavaliere dello Zodiaco per il 2016: Ariete.






Quando un parco è disordinato, pieno di erbacce, con le siepi troppo troppo cresciute e gli arbusti mezzi arsi, ecco che bisogna chiamare il giardiniere per sradicare la zizzania, dare alle piante una forma ordinata, potare i rami secchi.
Ebbene, il giardino dell'Ariete è parecchio incasinato e Saturno ha già affilato le cesoie: sarà un anno di grandi fatiche ma, così come un albero ricresce più rigoglioso e forte dopo una buona potatura, anche voi uscirete più solidi da questo anno di cambiamento e più leggeri per esservi liberati di molte vecchie zavorre.

Certo,avrete bisogno di questa nuova forza a fine anno, visto che da ottobre Giove ce l'avrà con voi, e non è affatto un buon cliente.

L'amore, ma solo quello vero.

La vostra vita di coppia funziona bene? Funzionerà meglio. Siete soli e cercate il grande amore? Potete trovarlo. Al contrario, se la vostra convivenza ha qualche crepa, Saturno (è lui che mena le danze per buona parte dell'anno ) ci infilerà dentro un piede di porco e tenterà di demolirla: a questo pianeta piacciono solo le storie solide. Se siete di quelli che si annoiano a mangiare sempre la solita minestra, non disperate: Urano vi porta ispirazioni improvvise, colpi di genio. Ah, se le camere da letto potessero arrossire!

Lavoro: meglio la cicala.

Come la vedete una situazione stabile? Se lavorate e guadagnate a sufficienza vi andrà bene, altrimenti... Altrimenti bisogna aspettare l'estate, quando il cielo vi guarderà con un occhio più benevolo. Non potrete però cantare vittoria, perchè in autunno quel seccatore di Giove busserà alla porta e non porterà buone notizie. Tenete da parte qualcosa per gli imprevisti.

Corri, corri.

L'avete già capito vero? Sarà un anno molto difficile. Grandi fatiche e risultati che si vedranno solo a lungo termine, se siete abbastanza bravi. Per fortuna l'energia non vi manca (e nemmeno la determinazione, Arieti testoni) e potrete affrontare le vostre sfide in buona forma fisica. Attenzione alla fine dell'anno, rischiate di ingrassare troppo. Fate qualche bella corsa all'aperto. Disciplina.

Oroscopo 2016: Toro.

Le previsioni del Cavaliere dello Zodiaco per il 2016: Toro.




Avete presente la scena del film "007, licenza di uccidere"; quella in cui Ursula Andress esce dal mare con un bikini bianco lasciando tutto il mondo senza fiato? Se siete troppo giovani per ricordarla, allora andate a cercarvela su youtube, perchè è così che sarete nel 2016. Vi lascerete alle spalle il mare di affanni degli ultimi anni per emergere splendidi, perfetti, sotto questo cielo di pianeti sorridenti. Certo, nel primo trimestre Marte sarà fastidioso come il cane del vostro vicino che abbaia tutta la notte, ma che volete farci? In fondo è il pianeta della guerra.

Nuove lenzuola.

Vediamo di capirci bene, però: state emergendo ma non siete ancora fuori dall'acqua. Magari c'è questa storia che non vi decidete a chiudere, nonostante non abbia più nulla da dare, forse pensate ancora al vostro ex che non vi guarda neanche per sbaglio. Beh, sappiate che a un certo punto sfanculerete tutti e vi addentrerete spavaldi in una bolgia dantesca di divertimento, sguaiatezza e promiscuità. Se siete abituati a cambiare le lenzuola ogni volta che cambiate amante, quelle che avete non vi basteranno.

Affilate la falce.

Sì miei cari, è finalmente arrivato il tempo del raccolto. Sarà tanto più abbondante quanto più avete seminato negli ultimi anni, metterete un bel po' di fieno in cascina! Manovrare la falce può essere faticoso e richiede una certa abilità, ma vuoi mettere la botta di autostima quando, ancora tutto sudato e col fiato grosso, guardi sorridendo il tuo bel mucchio di grano? 

Non pensateci troppo.

Lo ripeto: non siete ancora usciti dal mare. Il richiamo di Nettuno è ancora forte, vi fa sognare isole lontane, mete irraggiungibili, sogni irrealizzabili. Venite fuori dall'acqua, orsù. Tutto quello che dovete fare è entrare nel 2016 come uno sceriffo entra nel saloon. Spalancate la porta, petto in fuori e mano al cinturone.


sabato 5 dicembre 2015

Il quarantesimo chilometro.





Faceva qualche esercizio di stretching, per quanto consentiva l’angusto spazio che aveva a disposizione in mezzo agli altri corridori. Attorno a lui c’era il gran vociare euforico di una folla che si appresta ad una grande impresa. Il clima era splendido, l’aria era fresca, non poteva capitare una giornata migliore. Indossava il pettorale numero 3577, e aveva una gran voglia di partire. Anna, la sua compagna, non era altrettanto entusiasta. “Ma sei sicuro? Vuoi farlo lo stesso?” Gli aveva chiesto con lo sguardo premuroso, prima che entrasse nelle gabbie. Che domande, certo che voleva farlo, ci mancherebbe altro! Si era allenato per mesi, aveva programmato le sue settimane e le sue giornate per arrivare preparato a quell’evento. Avrebbe partecipato a quella maratona, nonostante tutto. Tentò di sgombrare la mente ricontrollando la sua attrezzatura. Il cardiofrequenzimetro funzionava, il cronometro pure, le scorte alimentari erano al loro posto. Si allacciò per l’ennesima volta le scarpe, stringendo per bene. Adesso era concentrato, mancavano pochi minuti alla partenza e fra i partecipanti era calato un silenzio trepidante. Prima di quanto si aspettasse un colpo di cannone diede il via. Fu il boato più potente che avesse mai sentito, o almeno così gli sembrò. Fra le urla festanti del pubblico, l’esodo ebbe inizio, a migliaia si immisero nel percorso in un caotico scambiarsi di posizioni, secondo il ritmo che ognuno voleva dare alla sua gara. Dopo tre o quattro minuti impiegati per farsi largo tra la folla, trovò lo spazio che gli serviva e cominciò a far girare le gambe. Un centinaio di metri davanti a lui ballonzolava la maglietta gialla di un altro concorrente, con la scritta “Hard Rock” sulle spalle. Decise di accodarsi a lui, trovando facile sostenere la cadenza del suo passo. Sorrideva, provava una sensazione bellissima e liberatoria. Non pensava affatto a quello che era successo. Pensava solo a correre.




Al quinto chilometro osservò il suo cronometro. Stava filando a un ritmo più veloce di quel che aveva programmato. Troppo veloce. Temeva di pagarla nel tratto finale, quando le energie servono davvero. Se voleva arrivare al traguardo doveva risparmiarsi, doveva controllare l’impeto, ma non era facile, dopo tutto quella era la sua prima maratona. Chi l’avrebbe mai immaginato? Lui, tutto computer e scrivania, che si faceva quarantadue chilometri al trotto. Ripensò a com’era cominciata quella avventura, dieci mesi prima. Stava facendo la sua solita passeggiata nel parco quella domenica mattina, quando un ragazzo che faceva jogging lo superò saltellando elegantemente. Sarebbe piaciuto anche a lui correre, mantenersi in forma. Sì, doveva assolutamente farlo, e nel momento stesso in cui prendeva questa decisione, si pose anche l’obiettivo di portare a termine una maratona, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lui era fatto così, si faceva rapire dalle sue idee. Quella sera stessa, durante una cena a casa dei genitori, dichiarò la sua intenzione quasi senza prendersi sul serio. Ci scherzarono un po’ su, tra una forchettata di pasta e un boccone di arrosto, finché suo padre, con il suo solito volto di cemento, affermò: “Se ti conosco bene abbastanza, finirai per fermati al quarantesimo chilometro. Inizi un milione di progetti e non ne porti a termine nemmeno uno.”
Suo padre. Quel severo, esigente uomo distante. Non gli aveva mai concesso un riconoscimento in tutta la vita. Un osservatore indifferente. Peggio: un critico incontentabile.
Il giorno successivo diede inizio alle ricerche sui metodi di allenamento e fece la sua prima, breve corsa serale.

Dopo undici chilometri scomparve un piccolo dolore che si era manifestato ai muscoli tibiali. Ora andava tutto bene, la sua corsa era sciolta. I suoi tempi erano ancora troppo veloci e il cardiofrequenzimetro segnava battiti troppo elevati, tuttavia non si sentiva affaticato. Davanti a lui, mister Hard Rock era già in difficoltà, aveva rallentato, la sua maglietta gialla era sempre più vicina. Lo sorpassò in scioltezza, traendone una immensa soddisfazione. Pensò che forse era una di quelle giornate in cui ti riesce tutto bene. Come quella volta che incontrò Anna, la sua Anna. Fu tutto così naturale, quella sera: fu sufficiente uno sguardo per capire. Si avvicinò a lei con la certezza di piacerle, ed era vero. Trovò tutte le parole e gli argomenti giusti, la conquistò. L’affiatamento di quel primo incontro si trasformò in complicità nelle settimane successive, e ben presto divenne amore. Non si erano più lasciati, avevano anche pensato al matrimonio, avevano ipotizzato di avere figli, un giorno. “Chissà come sarebbero felici i nostri genitori di poter fare i nonni.” Gli diceva Anna, sorridendo, ogni volta che ne parlavano. Davvero, sarebbe stato meraviglioso, bisognava solamente aspettare il momento giusto, in un mondo così complicato. Ma il momento giusto per sposarsi non era mai arrivato, men che meno per fare figli. Mai negli ultimi otto anni.

Percorrendo il lungo rettilineo che iniziava al diciannovesimo chilometro si accorse di essere rimasto solo. Non c’era pubblico, nessun concorrente né davanti, né alle spalle. Solo un vigile, in fondo, che controllava che si svolgesse tutto bene in quel tratto fantasma.
Non era certo una novità per lui. La sua azienda lo mandava spesso in viaggio all’estero per fare i controlli di qualità del prodotto, e doveva passare intere settimane da solo, in paesi dove non conosceva nessuno. Per meglio dire: coloro che lo conoscevano, non lo trovavano simpatico. Come può starti simpatico uno che ti fa le pulci tutte le volte che si presenta alla tua porta? Ad ogni modo la solitudine non era una condizione che lo spaventava. Nel silenzio della camera singola dell’albergo di turno, la sera, poteva leggere senza distrazioni. I suoi preferiti erano i romanzieri russi. Tolstoj in particolare. Si sentiva bene anche passeggiando nei centri cittadini stracolmi di persone che non potevano riconoscerlo, amava le vie commerciali, sperimentava le specialità culinarie del luogo. E poi lontano da casa si sentiva di buon umore, come alleggerito da una zavorra mentale. Questo nei primi giorni, poi, trascorsa una settimana, subentrava la nostalgia, forse però sarebbe stata meglio chiamarla in un altro modo: era più l’incombenza di un dovere, il richiamo delle radici. Due anni prima, l’amministratore dell’azienda l’aveva convocato nel suo ufficio: gli aveva fatto i complimenti per il suo lavoro, e gli aveva detto che intendeva proporgli di assumere il ruolo di dirigente aziendale, a capo del settore qualità. Lusinghiero, certo. Ma quanto tempo avrebbe dovuto dedicare al lavoro? Quante responsabilità, quanti pensieri sarebbero derivati da questo avanzamento di carriera? La sua vita ne sarebbe uscita di certo stravolta. Inoltre rischiava di fare il passo più lungo della gamba, di non essere in grado di reggere la pressione. Meglio continuare a fare quel che stava già facendo, era più sicuro. Rifiutò l’offerta, nella certezza di aver fatto la cosa giusta. Non aveva mai raccontato a nessuno di quella scelta, non alla sua famiglia, e neppure ad Anna.
Sfilò davanti al vigile che lo seguiva con il suo sguardo impassibile, alla fine del rettilineo. Dietro la curva che stava affrontando vide il punto di rifornimento, rallentando appena afferrò un bicchiere di acqua e un integratore di sali minerali. Ne aveva davvero bisogno, cominciava a sentire una certa secchezza in fondo alla gola.




La fame lo colse al ventottesimo chilometro. Era normale che fosse così. Come prevedeva il suo programma di gara, si era svegliato tre ore prima della partenza e aveva fatto una colazione abbondante, a base di fette biscottate integrali e miele, senza farsi mancare qualche grammo di prosciutto. Circa cinquecento calorie in carboidrati e una piccola dose di proteine. Dopo il chilometro venti aveva mangiato le maltodestrine in gel, al rifornimento successivo buttò giù una barretta alla frutta, ora era quasi giunto il momento di utilizzare la seconda busta di gel. Durante gli allenamenti aveva testato tutti i gusti esistenti in commercio, ma nonostante i volonterosi tentativi, nessuno era ancora riuscito a rendere quella roba meno disgustosa. Cominciava a sentire le gambe un po’ pesanti, il fiato era buono, sebbene più affannoso di prima, il ritmo era leggermente calato. D’altra parte era già ben oltre la metà della gara. Aveva immaginato di essere più stanco, a questo punto. Si persuase che avrebbe potuto tagliare il traguardo in meno di quattro ore senza tanti problemi. Niente male per una matricola. Una matricola, già. Gli tornarono in mente i primi tempi alla facoltà di statistica, quando era convinto che sarebbe riuscito a laurearsi in corso. In effetti era partito bene, il primo anno aveva fatto il percorso netto: trenta in tutti gli esami. Poi aveva perso l’entusiasmo, non rispettava più il programma di studi. Aveva completato gli esami dopo sette anni, ma non aveva mai finito di preparare la tesi. Aveva piantato lì e non sapeva nemmeno lui perché. Si vede che era destino. Guardò a terra, i suoi piedi si alternavano sull’asfalto, a ogni passo la fatica cresceva, e cresceva la consapevolezza che suo padre aveva ragione. Lui era uno di quegli uomini che mollano sempre.

Al trentatreesimo chilometro lo stomaco lo tradì. Il gel ballava su e giù come una pallina all’interno di un flipper. I tentativi di digestione si traducevano in rigurgiti acidi e gli rendevano difficile anche una respirazione regolare. Doveva saperlo che sarebbe stato lo stomaco. Maledetto, maledetto stomaco, voleva portagli via anche la maratona? Non bastava che si fosse già preso suo padre? Suo padre, cinque mesi prima, aveva cominciato ad avere problemi di digestione e dolori all’addome sempre più frequenti e più forti. Al primo esame lo trovarono: un tumore maligno, aggressivo, rabbioso. Sua madre piangeva, quando gli diede la notizia. Suo padre lo osservava, serio, seduto con i gomiti poggiati al tavolo, probabilmente sperduto, per la prima volta in vita sua. Anna corse ad abbracciare quell’uomo finito. Lui no, scosse il capo, senza dir nulla, uscì dalla porta e prese a correre, spingendo forte sulle gambe. Spinse finché poteva, finché rimase privo di fiato. Si piegò con le mani poggiate sulle ginocchia, ansimando. Suo padre sarebbe morto. Il tumore era incurabile. Non c’era niente da fare. E adesso, in questa corsa solitaria, cosa poteva fare? Non riusciva più a mantenere la concentrazione, l’andatura era scomposta. Le gambe gli pesavano sempre più, e mancavano ancora quasi dieci chilometri alla fine. Le sue energie si sarebbero consumate inesorabilmente come il corpo di suo padre? Quel corpo magrissimo, snervato. Il fiero volto di cemento trasformato in un aquilone di ossa e pelle, senza che ci fosse alcun vento a sostenerlo. La forza di suo padre si era velocemente annullata, la sua vitalità spenta. Ben presto non era più stato capace di reggersi in piedi da solo. Sarebbe successo anche a lui? Sarebbe stramazzato rovinosamente sulla strada? In questa corsa come nella vita, un perdente.

Al trentacinquesimo chilometro era una nave alla deriva. L’andatura lentissima, il busto sistemato in diagonale rispetto al bacino, la spalla destra sempre protesa in avanti, mentre il braccio sinistro, invece di accompagnare l’azione delle gambe, dondolava pesantemente lungo il fianco, facendosi trasportare come fosse un clandestino. Improvvisamente sentì un forte senso di nausea. Forse era la volta buona che si toglieva di dosso quel maledetto gel. Tentò di assecondare l’impulso, ma fu inutile. Peggiorò solo la situazione. Per lo sforzo, ora lo stomaco gli faceva un gran male. Rise di se stesso: non era capace nemmeno di vomitare. Era diventato una caricatura. Negli ultimi tempi le mansioni più semplici si trasformavano in disastri. Quando suo padre non era più in grado di muoversi dal letto, poco prima della fine, lui trascorse alcune sere a vegliarlo. Tentavano ancora di fargli mangiare qualcosa, ma la malattia era troppo avanzata. Regolarmente rimetteva tutto quel che ingeriva. Quella volta non fu diverso; afferrò la padella con l’intento di svuotarla, ma alzandosi perse la presa e ribaltò tutto sul letto. Suo padre lo fissò silenziosamente. Quella poca energia che gli era rimasta, la mise tutta in quello sguardo severo. Fu il rimprovero più duro che avesse mai ricevuto. Tirò un respiro profondo nella vana speranza che lo stomaco smettesse di dolergli. I suoi occhi gli bruciavano terribilmente, ma era il sudore. Era solamente il sudore.

Fu al chilometro trentotto che la crisi divenne insostenibile. Si trascinava avanti, ma non seguiva più una linea retta. La sua vista era offuscata, ai crampi allo stomaco si erano aggiunti quelli al retro coscia e ai polpacci. Anche psicologicamente non ce la faceva più: continuava a ripetersi che era il momento di ritirarsi, che non valeva la pena di patire tanto per una stupida corsa. Spingeva ancora le sue povere gambe nella speranza di riprendersi, ma era sfinito, prosciugato, annichilito. Nemmeno le grida di incitamento che gli lanciava il pubblico erano di aiuto, al contrario, gli davano fastidio. Tentò di isolarsi, non funzionò. Le odiava, quelle maledette scimmie urlatrici, capaci solo di guardare e dimenarsi. Ci provassero loro a trovarsi in quella situazione. Fece un patto con le sue gambe: portatemi fino alla fine, e vi prometto che non farò un solo passo oltre la linea del traguardo. Vi prometto una seduta di massaggi che vi rimetteranno a nuovo, e almeno una settimana di riposo. Risposero con un’acuta sinfonia di crampi. Poi, come un prestigiatore apparso dal nulla, al suo fianco si ripresentò mister Hard Rock con la sua maglietta gialla. Era stato più lungimirante, lui. Aveva ridotto il passo per non sfiancarsi troppo presto. Ora lo stava distaccando inesorabilmente, con regolarità, era già alcune decine di metri più avanti. Aveva gestito meglio la propria gara, aveva rispettato il programma che si era fissato. Ecco cosa succede ad essere troppo impulsivi: si cominciano un milione di cose e non se ne finisce nessuna. Dove l’aveva sentito dire? Smise di correre e cominciò a camminare. Le gambe gli tremavano, ogni passo era una sofferenza. Guardò il suo cronometro: le quattro ore erano appena trascorse, aveva fallito il suo obiettivo, a che serviva continuare ancora? Si fermò, appoggiò entrambe le mani a una transenna, con la testa china e lo sguardo di un uomo sconfitto. Il sudore gocciolava copioso dalla sua fronte, formando piccole macchie scure sulla strada. Potevano sembrare anche lacrime. Si domandò se fosse giusto sfogarsi, in quella situazione. No, non era dignitoso. Rimase fermo un paio di minuti tentando di trattenere il pianto. In fondo era solo un altro dei suoi tanti fallimenti; niente laurea, niente carriera, niente nipotini per il babbo. Cosa poteva importare se finiva o no quella maledetta maratona? Cosa sarebbe mai cambiato nel tagliare il traguardo? Non capiva nemmeno perché aveva deciso di partecipare, nello stato d’animo in cui si trovava. Aveva ragione Anna, avrebbe fatto meglio a restare a casa, per elaborare il lutto. Non avevano nemmeno ancora celebrato il funerale. Cosa ci faceva lì?
Tre giorni prima suo padre aveva alzato il sottilissimo braccio per chiamarlo vicino al letto. Non aveva quasi più la forza di parlare, ma si sforzò e gli fece una domanda: “Negli ultimi giorni hai trascorso molto tempo qui, non ti alleni più per la maratona?”
“Manca poco alla gara, sto facendo lo scarico. In pratica mi riposo, recupero le energie.”
“Come vorrei poter assistere, però temo che non riuscirò a soddisfare la mia curiosità. Mi sa che sono io quello che deve mollare, questa volta. Non ce la faccio più. Mi piacerebbe proprio sapere cosa sceglierai di fare, quando arriverai al quarantesimo chilometro.” Furono le ultime parole che pronunciò prima di morire, la notte successiva.
Mentre si accingeva ad abbandonare il circuito, alzò lo sguardo lungo il tratto di strada che aveva rinunciato a percorrere. Ed ecco che lo vide, a non più di trecento metri da lui, a contrassegnare l’ultima stazione per i rifornimenti, il cartello con sopra quel numero.
Quaranta.
Che cosa sceglierai di fare al quarantesimo chilometro?

Camminò, prima piano, poi sempre più velocemente, fino ad arrivare in corrispondenza del cartello. Lo guardò senza fermarsi, sputò per terra, strinse i denti e ricominciò a correre verso il traguardo.

lunedì 30 novembre 2015

Purificazione.

Racconto vincitore del concorso Giallo Miele 2012.





La signora Matteucci tornò dalla sua vacanza alle terme e non trovò suo marito ad accoglierla. Non che dopo oltre quarant’anni di matrimonio si aspettasse una festa a sorpresa, ma almeno una mano per portare dentro i bagagli poteva dargliela! Nessuno gli avrebbe risparmiato una bella ramanzina.
Entrò faticosamente in casa trascinando le valigie e lo chiamò. Lo chiamò nuovamente, più forte, poi controllò che non fosse in giardino. Probabilmente era in cantina a trafficare con le sue bottiglie di vino e non poteva sentirla. La donna aprì il frigorifero penosamente vuoto, come c’era da aspettarsi  da un uomo sposato dopo una settimana di assenza della moglie, trovò comunque una bottiglietta di thè freddo, si sedette sul divano e accese il televisore. Rimase perplessa quando, terminata la puntata dell’Eredità, suo marito non si presentò per la cena, e decise di andare a controllare.
Al centro della cantina vide un grosso sacco di plastica ben chiuso, di quelli che si usano per i rifiuti. La sagoma di ciò che conteneva non lasciava dubbi. La signora Matteucci corse verso il cadavere di suo marito, strappò il sacco disperatamente e urlò osservando inorridita le proprie mani.

Il nuovo arrivato, l’appuntato Vito Ragusa, indossava sempre gli stessi occhiali neri e aveva sempre la medesima espressione seria, imperturbabile, a tutte le ore, in tutte le situazioni.  Come Sylvester Stallone quando recita. Sembrava anche l’unico di tutta la Compagnia a  non essere distratto dalla procacità del Maresciallo Stefania Abbondanti e probabilmente era per questo che l’avevano affiancato a lei.
“Il Capitano Zamboni non si occupa direttamente dei casi di omicidio?” Domandò il giovane carabiniere.
“Oh, sì.” Rispose la donna. “Ma ha un problema con i cadaveri: se ne vede uno si sente male, vomita, sviene. Non è uno spettacolo consigliabile.”
“Non sarà peggio che vedere la scena di un omicidio.”
“Me lo dirà la prima volta che le toccherà di portare la divisa in lavanderia.”
Ragusa non rispose. Fermò l’auto nei pressi della villetta dei Matteucci e scese, seguendo il Maresciallo Abbondanti nell’edificio. Un infermiere li accolse: “Signori.”
“Avete spostato il corpo? La moglie dove si trova?” Stefania si guardava attorno per capire se ci fossero indizi di quel che era successo.
“Abbiamo solo controllato che fosse effettivamente morto. La signora si trova in ospedale, è sotto shock. Il corpo è in cantina, vi accompagno.”
Scesero una rampa di scale non molto ben illuminata. Il cadavere era sdraiato sul pavimento, ancora per metà dentro il sacco. Il Maresciallo si mosse decisa, per esaminarlo da vicino.
“Faccia attenzione!” Esclamò troppo tardi l’infermiere.
Stefania Abbondanti scivolò battendo il sedere a terra e proseguì slittando su una sostanza viscosa fino a trovarsi sdraiata accanto al morto. Alzò il busto di scatto e gridò acutamente scuotendo le mani: “Oddio che schifo, cos’è questa roba? Toglietemela.”
“Sembrerebbe miele, Maresciallo.” Arguì Ragusa, dritto in piedi sull’ultimo gradino della scala, con il cappello sotto braccio e gli occhiali neri  nella penombra.

“È piuttosto insolito.” Ammise il Capitano Zamboni. “Mi faccia capire bene, Abbondanti. Il cadavere era immerso nel miele, dentro un sacco per la spazzatura?”
“Sissignore. Quando la moglie della vittima ha aperto il sacco, il miele si è sparso per tutta la cantina.”
“E il maresciallo c’è scivolata sopra, inzaccherandosi tutta.” Aggiunse Ragusa.
“Ho saputo.” Affermò Zamboni con la sua solita, paciosa faccia da schiaffi. “A quanto pare gran parte del personale della Compagnia è solleticato dal pensiero del Maresciallo Abbondanti tutto ricoperto di miele.”
La ragazza si infiammò in volto e sbottò: “Ho fatto una brutta caduta e sono ancora dolorante! Invece di fantasticare su certe cose i miei colleghi dovrebbero pensare alle mie povere chiappe!”
Ragusa fissò i suoi occhiali neri verso la collega, il sorriso sornione di Zamboni si allargò ancora di più, Stefania Abbondanti stavolta sbiancò: “Cioè… Intendevo dire… non in quel senso… Io…”
“Ho capito, Abbondanti.” Disse il Capitano facendosi serio.
“Perché mai l’assassino si è preso la briga di mettere il cadavere nel miele? Cosa significa?” Senza aspettare una risposta aggiunse: “Maresciallo, avvisi il Professor Deangeli che stiamo andando a fargli visita.”

Aldo Deangeli era un professore di storia con la passione dell’apicoltura. Tutti in paese prima o poi avevano comprato un barattolo di miele da lui e avevano ascoltato un suo aneddoto sulle api e sulla loro importanza, Zamboni compreso.
Arrivarono accolti dall’abbaiare dei cani. “Non vi preoccupate, sono innocui.” Disse l’uomo ai carabinieri che stavano scendendo dall’auto.
“Che carini, quanti ne avete?” Domandò la Abbondanti carezzando un grosso bastardone che le si era avvicinato.
“Questi tre, più uno piccolino che teniamo in casa. Non abbiamo figli e loro ci fanno tanta compagnia. Entrate pure. Al telefono mi avete detto che vi servono informazioni sul miele, ha a che fare con l’uccisione di Matteucci?”
“Sì, speriamo che lei possa aiutarci.” Rispose Zamboni varcando la porta.
“Mi avete trovato per puro caso. Sono tornato stamane da Pisa, dove ho tenuto una serie di lezioni. Ma lo sa che io e Matteucci eravamo compagni di scuola alle elementari. Pensi che l’ho incontrato due settimane fa, dopo anni che non ci vedevamo.”
“Ma davvero?”
“Già, prima di partire ho portato mia moglie fuori a cena. Al ristorante c’erano anche Matteucci e Tarroni, un altro compagno di scuola; loro sono sempre stati due amiconi fin da piccoli. Mi hanno salutato, a fatica però, anche perché erano lì con i figli e una gran nidiata di nipotini che facevano una tale confusione.”
“Gli ultimi momenti felici. Nessuno se ne rende mai conto in questi casi. Professore, il corpo di Matteucci è stato sommerso nel miele, mi chiedevo quale significato simbolico potrebbe avere.”
“Interessante!” Esclamò l’accademico. “E anche terribile. Gli egiziani usavano il miele, mescolato alla propoli, per imbalsamare i loro morti. Presso gli antichi greci, l’ambrosia era considerato assieme al nettare il nutrimento degli dei e produceva sangue divino, donando immortalità ed eterna giovinezza. Entrambi gli alimenti venivano preparati da Demetra, ghiotta di miele, con l’aiuto delle sue sacerdotesse, chiamate per questo Melisse.”
L’uomo smise di parlare e si rivolse alla moglie che stava quietamente seduta con il suo maltese sulle ginocchia: “Lidia, tu conosci già tutte queste storie, vorresti portare un poco di ricotta con quella mia nuova produzione? Vorrei farla assaggiare ai nostri ospiti.”
L’elegante signora si alzò poggiando la mano sulla spalla del marito e sorridendo si avviò in cucina, seguita dal suo cagnolino bianco.
“Ma dicevo, il valore simbolico del miele: ci sono riferimenti molto interessanti nella cultura orientale. Nei Veda il miele è considerato elemento di fertilità, portatore di vita, il grande oceano di sperma, principio fecondatore. Nell’antica cultura giapponese, esso è simbolo della terra e del centro, tanto che tutti gli alimenti dati all’Imperatore, trascendente figura divina, erano conditi con il miele.”
Il professore fece una breve pausa compiaciuta, quindi proseguì: “Ma non credo che queste cose vi siano utili. Al contrario vi interesserà sapere che nell’antica Roma i seguaci del culto di Mitra erano gerarchicamente divisi in vari gradi di iniziazione: i Leoni di Mitra erano un grado intermedio, si occupavano del fuoco degli altari e dovevano preservare la mani pure da ogni atto che rechi dolore, danno o infamia. Poiché erano legati al fuoco purificatore, durante le cerimonie potevano adoperare per l’abluzione solo il miele, essendo l’acqua notoriamente nemica del fuoco. Così con esso si purificavano le mani e la lingua dagli elementi impuri e peccaminosi.”
“Così l’assassino avrebbe purificato il povero Matteucci…” Commentò Stefania Abbondanti.
Rientrò la signora Lidia con un vassoio e lo appoggiò in tavola. “Ecco qua.” Disse la donna. “L’ultimo prodotto del nostro alveare, aromatizzato all’anice.”
“Sembra ottimo.” Constatò il Capitano allungando bramosamente la mano verso una ciotola.
“Lo può ben dire.” Affermò orgogliosamente Deangeli. “Ritengo che ogni cosa, cosparsa di miele, acquisisca una grande sensualità.”
Il Capitano alzò un sopracciglio in direzione della Abbondanti, che non riuscì a evitare un certo rossore sulle guance.
“Sto parlando di cibo, naturalmente.” Continuò il Professore con un lieve sorriso ironico, dopo aver notato la scena. La ragazza frugò nervosamente  nella sua borsa e ne estrasse un barattolino: “Ho portato un campione del miele che ricopriva la vittima, vuole darci un’occhiata?”
Il Professor Deangeli esaminò la sostanza facendola colare da un cucchiaino. “Piuttosto liquido e trasparente, ambrato, quasi dorato. Dall’odore direi che è miele di marruca. Dovrei assaggiarlo per esserne sicuro, ma temo che il suo retrogusto di cadavere non sia di mio gradimento.”
Zamboni piantò lì una sonora risata, domandò: “Dove lo vendono?” Poi infilò in bocca un'altra grossa forchettata di ricotta.
“È abbastanza raro. Viene prodotto quasi esclusivamente in toscana e solo nelle annate propizie.”

L’indomani, il Maresciallo Abbondanti aveva fatto un giro di telefonate e non ci aveva messo molto a scoprire che una grossa quantità di miele di marruca era stata acquistata da Paolo Tarroni pochi giorni prima.
“Tarroni? Quello che era a cena con la vittima? L’amicone del Matteucci?” Domandò Zamboni alzando lo sguardo dal dossier del caso.
“Proprio lui. Ho mandato Ragusa e Azzolini a prenderlo per poterlo interrogare.”
“Bene. Stavo esaminando questa relazione: non ci sono segni di scasso, l’assassino è entrato con il consenso della vittima, e l’ha soffocata, probabilmente con un sacchetto di plastica. Vedo che il corpo ha una specie di bruciatura sulla faccia. Da dove può venire?”
“Si direbbe il segno di un taser, Signore. Uno strumento che paralizza le persone tramite una forte scarica elettrica.”
“Già. Quindi l’assassino non era sicuro di poter sopraffare un uomo di oltre sessant’anni. Mi pare che non vendano questa roba in Italia.”
“Si acquista abbastanza facilmente su internet.”
“Capisco. E non abbiamo testimonianze utili. A quanto pare Tarroni è il nostro unico sospettato.”
“Non sembra convinto, Signore.”
“Di solito quando due amici di vecchia data si ammazzano, lo fanno senza tante storie.”
Mentre Zamboni rifletteva su queste parole, il suo telefono squillò: Ragusa e Azzolini avevano trovato Paolo Tarroni nel suo appartamento, chiuso dentro un sacco pieno di miele.

Zamboni annunciò che sarebbe andato a tagliarsi i capelli.
Stefania Abbondanti sorrise: “Non spettegolate troppo su di me…” Ma sapeva che quel giorno si sarebbe parlato solo delle due vittime. Il Capitano aveva bisogno di raccogliere informazioni su di loro e nessuno poteva saperne più di Enrico il barbiere.
“Capitano, io e quei due abbiamo fatto i giovani insieme! Che brutta fine.” Affermò l’uomo mentre tagliava i capelli al carabiniere. “Li chiamavamo Porfirio e Rubirosa, perché avevano sempre le ragazze più belle. Anche dopo che si sono sposati non hanno mica smesso di fare i playboy. Poi dopo cinque o sei anni si sono calmati anche loro.”
“Si sono calmati?” Chiese il Capitano.
“Eh sì. Si vede che le mogli hanno cominciato a dire davvero. Hanno smesso tutti e due di fare i galletti.”
“Tarroni era vedovo. Magari aveva ricominciato a frequentare qualche donna.”
“Non credo mica. Due anni fa ha subito una certa operazione che non consente più di fare la ginnastica artistica. Quei due lì erano tipi tranquilli, si godevano la pensione; più che altro gli piaceva mangiare bene, e tanto.”
“Non sono morti di indigestione, però.” Commentò amaramente Zamboni.
“Ad ogni modo sarà meglio che lo troviate in fretta questo assassino, prima che Bruno Vespa faccia un plastico del paese. E poi la gente ha paura: Edda, la vecchia mammana, si è fatta accompagnare a Vicenza, a casa dei suoi figli. Figuriamoci che non aveva voluto uscire di casa neanche quella volta che avevano evacuato la sua strada per una fuga di gas. doveva proprio essere terrorizzata. E i miei clienti cominciano a dire che c’è un serial killer in giro.”

Il ragazzo delle pizze suonò in caserma e fece la sua consegna.
Zamboni non aveva intenzione di riposare finché non avesse trovato almeno una pista da seguire, un sospettato, un ipotetico movente. Naturalmente non avrebbe concesso di riposare nemmeno al suo Maresciallo preferito.
“Gorgonzola e peperoni? Abbondanti, questa non mi sembra una pizza da ragazze.”
“Conosce molte ragazze, Capitano?”
“Ragazze di una volta.” Sorrise lui. “In paese dicono che è opera di un serial killer.”
“I due omicidi sono identici: l’assassino si fa aprire la porta, immobilizza la vittima con un taser, la soffoca e la chiude in un sacco pieno di miele. Però i serial killer di solito colpiscono vittime a caso, questi due sono collegati.”
“Cos’è che li collega? Erano amici, ma non abbiamo trovato niente che possa anche lontanamente giustificare una volontà omicida. Avete scoperto perché Tarroni aveva comprato tutto quel miele?”
“Uno dei suoi figli dice che voleva regalarne un barattolo a testa ai parenti in occasione della cresima della nipotina. Bomboniere insomma.”
“Una cresima che lui non vedrà. Figli e nipoti sono una gioia che bisogna godersi ogni volta che si può. Che mi dite dei sacchi? Erano del Tarroni anche quelli?”
“Non ne abbiamo trovati di uguali in nessuna delle due abitazioni.”
“Quindi l’assassino se li è portati da casa. Ha ucciso il Tarroni già con l’intenzione di metterlo dentro un sacco,  poi ha visto il miele e ha deciso di purificare la vittima, conservandone metà per il Matteucci. Cosa voleva dire? Perché li ha infilati lì dentro?”
“Li odiava, li considerava spazzatura?”
Zamboni scosse il capo. “In questo caso sarebbe stato sufficiente ammazzarli. È qualcosa di più profondo. Qualcosa di antico, probabilmente: sembra che i due fossero diventati tutti casa, famiglia e ristorante.”
“Diventati?”
“Me li hanno descritti come donnaioli impenitenti, da giovani.”
“Potrebbe essere una donna dal cuore infranto? Dopo tutto questo tempo? Che la passione si sia riaccesa nel rivedere uno dei due?”
Stefania Abbondanti aveva notato quello sguardo negli occhi del Capitano, lo sguardo che aveva quando un’idea gli attraversava la mente e non riusciva ad afferrarla. Sapeva che il cervello di Zamboni stava elaborando un’ipotesi, ma che aveva la necessità di essere aiutato, perciò continuò a parlare nella speranza di dargli qualche spunto utile. “Forse un figlio illegittimo. No, in quel caso avrebbe ammazzato solo uno dei due. Rimane ancora l’ipotesi del culto di Mitra. Se vuole posso fare una ricerca per vedere se esiste qualche pazzoide che lo pratica, anche se ne dubito: io non ne avevo mai sentito parlare prima d’ora.”
“Io nemmeno. Sono scettico su questa pista, ma non abbiamo altro. Magari riusciamo a restringere il campo dei sospettati. Coloro che hanno conoscenze così specifiche devono essere piuttosto rari .”
Il Capitano appoggiò nel piatto la fetta di pizza che stava portando alla bocca, meditò ancora un attimo in silenzio, poi il suo sguardo mutò: “Abbondanti, lei sa cos’è una mammana?”
“Non ne sono sicura, Signore.”
“Già, lei è molto giovane. Chiami la Compagnia di Vicenza, che fermino la signora Edda Forti. Inoltre deve procurarmi una cartella clinica.”

Albeggiava, Il Capitano Zamboni finì di sorseggiare un caffè; era di umore malinconico quando si sedette di fronte alla donna. Sfogliò la cartella clinica, tirò un sospiro profondo: “Dovremo farle qualche domanda, se vuole può chiamare un avvocato, in ogni caso dovremo trattenerla qui finché non sarà terminata la perquisizione di casa sua.”
“Non vi farò perdere tempo. Il taser è dentro una scatola di scarpe, nell’armadio della mia stanza da letto.”
“È una confessione?”
La moglie del Professor Deangeli chiuse gli occhi. Il suo volto bello e altero, sebbene segnato dall’età, tradì solo per un attimo il dolore che provava. “Non ho mai sperato di sfuggire alla giustizia, mi dispiace solo di non aver finito il lavoro.”
“Si riferisce a Edda? Voleva uccidere anche lei?”
“Era stata il loro strumento. Avevo conservato un poco di miele anche per lei. Sì, la volevo ammazzare.”
“Perché l’aveva resa sterile?”
“Proprio così. Fu lei a farmi quell’operazione, a togliermi mio figlio e la possibilità di averne.”
“Era rimasta incinta di Matteucci e Tarroni aveva coperto il suo amico? O viceversa?”
“Chi lo sa?” Sorrise dolorosamente la donna. “Erano belli, sapevano dire le cose giuste e io avevo poco meno di diciotto anni. Finimmo tutti e tre nello stesso letto. Quando seppero che aspettavo un bambino sembravano impazziti. Avevano delle famiglie, delle mogli, mi urlarono contro con una tale veemenza che non fui capace di oppormi. Abortire era ancora illegale, la legge uscì un anno dopo: mi portarono da Edda la mammana. Mi infilò quei ferri orribili, tirò fuori il feto e lo chiuse in un sacco di plastica.”
La donna fu costretta a smettere di parlare, perché il suo spirito era troppo lacerato dal rivivere quel ricordo.
Zamboni posò lo sguardo sulla cartella clinica: “In seguito fu ricoverata in ospedale, a causa di quell’aborto clandestino rischiò la vita. Si salvò ma rimase sterile.“
Lidia Deangeli strinse le labbra, tenendo le mani sulle ginocchia contrite e continuò: “Ho vissuto per anni con questo dolore dentro, con il rimpianto della vita che avrei potuto vivere. Quella sera, quando li ho visti al ristorante, felici, incuranti, con i loro figli e i loro nipoti, è esploso il mio odio. La loro gioia ha innescato il mio rancore. Ho atteso che mio marito partisse, ho ordinato un taser tramite un sito internet russo, appena mi è arrivato sono andata da Tarroni e l’ho ucciso. L’ho messo in un sacco della spazzatura: doveva finire come mio figlio. La stessa notte ho ucciso anche Matteucci.”
“Lo sa, è stato il miele a farmi sospettare di lei. Poche persone potevano sapere che il miele è considerato un elemento purificatore, e lei ne aveva di certo sentito parlare da suo marito. Partendo da questa ipotesi, mi sono chiesto quale rapporto poteva esserci tra lei e le due vittime: vista la fama dei due, da giovani potevate essere stati amanti, ma il movente? Sapevo che lei non aveva figli, e che Edda la mammana era fuggita in preda alla paura. La cartella clinica ha dato una prima conferma della mia ipotesi, e stanotte Edda ha raccontato tutta la storia ai miei colleghi di Vicenza.”
“Gìà, il miele. L’ho visto, ammucchiato sul tavolo, e mi sono venuti in mente i racconti di mio marito, ma non volevo purificarli, quei due. No, che vadano all’inferno immondi come sono. Il miele è anche un simbolo di fertilità: loro avevano rubato la mia, che se la tenessero anche da morti.”

venerdì 27 novembre 2015

Le 36 regole per scrivere correttamente.


36 consigli con esempio incorporato scritti da William Safire, poi tradotti da Umberto Eco. Fatene tesoro, aspiranti scrittori.








1. Evitate le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.
2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.
3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.
4. Esprimiti siccome ti nutri.
5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.
6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.
7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.
8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.
9. Non generalizzare mai.
10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.
11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu”.
12. I paragoni sono come le frasi fatte.
13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).
14. Solo gli stronzi usano parole volgari.
15. Sii sempre più o meno specifico.
16. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.
17. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.
18. Metti, le virgole, al posto giusto.
19. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non sempre è facile.
20. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.
21. C’è davvero bisogno di domande retoriche?
22. Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe – o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento – affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.
23. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fa sbaglia.
24. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.
25. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!
26. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.
27. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche e simili.
28. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del “5 maggio”.
29. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).
30. Pura puntiliosamente l’ortograffia.
31. Non andare troppo sovente a capo.

Almeno, non quando non serve.

32. Non usare mai il plurale maiestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.
33. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.
34. Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiono come altrettante epipfanie della differanza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva eccedano comunque le competenze cognitive del destinatario.
35. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.
36. Una frase compiuta deve avere

mercoledì 25 novembre 2015

5 citazioni di Vladimir Putin

Putin, il terrorismo e la politica estera.


Vladimir Putin è un protagonista  nel panorama politico mondiale, un personaggio molto discusso del quale però non  si può dire che non abbia le idee chiare.


Citazioni


1. Noi perseguiteremo dappertutto terroristi, e quando li troveremo, mi perdoni l'espressione, li butteremo dritti nella tazza del cesso.





2.  Sarebbe ugualmente irresponsabile provare a manipolare gruppi di estremisti, provare ad assoldarli per raggiungere i propri obiettivi politici sperando di riuscire a "gestirli". Sono intelligenti quanto voi e non saprete mai chi sta manipolando chi.





3. La Russia praticamente non ha più basi militari all'estero. La nostra politica non ha un carattere globale, offensivo o aggressivo. Pubblicate sul vostro giornale la mappa del mondo, indicando tutte le basi militari americane e vedrete la differenza.





4. Il compito del potere non è solo quello di dare miele: talvolta deve dare anche delle medicine amare.




5. Hitler voleva distruggere la Russia. Tutti dovrebbero ricordare come è andata a finire.



Il tango a quel tempo.

Dai Coltelli agli abbracci.









Tra sporcizia, povertà e malaffare,
nella strada delle bische e dei bordelli,
nei miseri sobborghi dove si accroccano gli emigranti di tutta Europa,
nasce il tango.

Lontani da casa,
smarriti in una babele di lingue,
senza un soldo in tasca,
sotto le stelle di un cielo sconosciuto,
due milioni di nuovi residenti
ringhiano e si annusano come cani diffidenti,
si radunano in cricche malavitose,
si azzuffano e si ammazzano nei vicoli,
si scontrano e si incontrano.
Le culture cominciano a contaminarsi.
I bellimbusti dei bassifondi parlano in codice,
utilizzano un dialetto nuovo, il Lunfardo,
un misto tra italiano, francese e tedesco.
La lingua degli emarginati.
Si pavoneggiano, raccontano le storie delle loro imprese criminali.
E quando quelle storie si imbattono nelle chitarre dei gauchos,
diventano canzoni.
E le canzoni si sa, si ballano.

Il tango a quel tempo
è un ragazzino arrogante,
un bulletto di periferia,
un digrignare di denti,
una filastrocca sconcia su un ritmo sincopato,
è la rabbia dei diseredati,
un duello uomo contro uomo
– affondo e schivata! -
una danza dei coltelli.

Cambia
nel momento in cui incontra l'amore e le sue pene.
Cambia quando il succedersi degli anni
attenua gli ardori e lascia spazio alle disillusioni.
Cambia e canta il dolore di un affetto perduto,
il declino della vecchiaia,
la delusione per un desiderio irrealizzato.
Il ballo non è più una sfida virile,
è un continuo prendersi e lasciarsi fra due innamorati,
l'ultima stretta prima di un altro addio.

Il tango a quel tempo
è una donna sola che osserva l'alba,
è l'attesa di un ritorno,
un pianto silenzioso,
è il sospiro di un innamorato timoroso,
una nostalgia piena di speranza,
è un'attrice drammatica talmente bella e triste
che non si può fare a meno di notarla.

Entra nel cuore dei rampolli di buona famiglia,
viaggia: arriva a New York, poi in Europa,
nei palazzi di Madrid, nei caffè di Parigi.
La sua musica si muove lenta, voluttuosa,
elegante e discreta come un'amante raffinata.
La sua maturità si veste di passione,
di sguardi sensuali, di movenze ardite,
di stanze lussuose, di frasi proibite.

Ma il tempo passa
e passano le mode.
La stanca diva ritorna a casa.

Finisce cosí?
No, il tango non è una vecchia star
imbolsita e decadente:
è ancora quel ragazzino irriverente,
ancora quella donna inquieta,
ed è un genitore amorevole che ci tiene fra le sue braccia,
è il tratto di identità comune della gente argentina,
è la calce che ha unito diverse culture
e ne ha fatto una nazione.

Il tango oggi
è un insegnante senza tempo
che non si stanca di impartirci la sua lezione:

che possiamo scongiurare
il ripetersi e ripetersi ancora
della storia di Caino che continua a uccidere Abele,
che popoli differenti
possono diventare un unico popolo,
se solo decidiamo di riporre il coltello
e ci consegniamo l'un l'altro
in un abbraccio.

lunedì 2 novembre 2015

7 citazioni di Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini, il dissacratore.






Ma naturalmente per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla.




Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile.
Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.






La serietà! Dio mio la serietà! Ma la serietà è la qualità di coloro che non ne hanno altre.




Chi si scandalizza è sempre banale: ma, aggiungo, è anche sempre male informato.




Solo l'amare, solo il conoscere conta, non l'aver amato, non l'aver conosciuto.




I beni superflui rendono superflua la vita.




Bisogna essere molto forti | per amare la solitudine.




Note biografiche.

Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo del 1922 a Bologna. Primogenito di Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare. Il padre, di vecchia famiglia ravennate, di cui ha dissipato il patrimonio sposa Susanna nel dicembre del 1921 a Casarsa. Dopodiché gli sposi si trasferiscono a Bologna.

Lo stesso Pasolini dirà di se stesso: "Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della societa' italiana: un vero prodotto dell'incrocio... Un prodotto dell'unita' d'Italia. Mio padre discendeva da un'antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese. Dalla parte di mio nonno materno erano del ramo della distilleria. La madre di mia madre era piemontese, cio' non le impedi' affatto di avere egualmente legami con la Sicilia e la regione di Roma"

Nel 1925, a Belluno, nasce il secondogenito, Guido. Visti i numerosi spostamenti, l'unico punto di riferimento della famiglia Pasolini rimane Casarsa. Pier Paolo vive con la madre un rapporto di simbiosi, mentre si accentuano i contrasti col padre. Guido invece vive in una sorta di venerazione per lui, ammirazione che lo accompagnerà fino al giorno della sua morte. 
Nel 1928 è l'esordio poetico: Pier Paolo annota su un quadernetto una serie di poesie accompagnate da disegni. Il quadernetto, a cui ne seguirono altri, andrà perduto nel periodo bellico.

Ottiene il passaggio dalle elementari al ginnasio che frequenta a Conegliano. Negli anni del liceo dà vita, insieme a Luciano Serra, Franco Farolfi, Ermes Parini e Fabio Mauri, ad un gruppo letterario per la discussione di poesie.

Conclude gli studi liceali e, a soli 17 anni si iscrive all'Università di Bologna, facoltà di lettere. Collabora a "Il Setaccio", il periodico del GIL bolognese e in questo periodo scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in un primo volume, "Poesie a Casarsa". 
Partecipa inoltre alla realizzazione di un'altra rivista, "Stroligut", con altri amici letterati friulani, con i quali crea l' "Academiuta di lenga frulana".

L'uso del dialetto rappresenta in qualche modo un tentativo di privare la Chiesa dell'egemonia culturale sulle masse. Pasolini tenta appunto di portare anche a sinistra un approfondimento, in senso dialettale, della cultura.

Scoppia la seconda guerra mondiale, periodo estremamente difficile per lui, come si intuisce dalle sue lettere. Viene arruolato sotto le armi a Livorno, nel 1943 ma, all'indomani dell'8 settembre disobbedisce all'ordine di consegnare le armi ai tedeschi e fugge. Dopo vari spostamenti in Italia torna a Casarsa. La famiglia Pasolini decide di recarsi a Versuta, al di là del Tagliamento, luogo meno esposto ai bombardamenti alleati e agli assedi tedeschi. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio. Ma l'avvenimento che segnerà quegli anni e' la morte del fratello Guido, aggregatosi alla divisione partigiana "Osoppo".

Nel febbraio del 1945 Guido venne massacrato, insieme al comando della divisione osavana presso le malghe di Porzus: un centinaio di garibaldini si era avvicinata fingendosi degli sbandati, catturando in seguito quelli della Osoppo e passandoli per le armi. Guido, seppure ferito, riesce a fuggire e viene ospitato da una contadina. Viene trovato dai garibaldini, trascinato fuori e massacrato. La famiglia Pasolini saprà della morte e delle circostanze solo a conflitto terminato. La morte di Guido avrà effetti devastanti per la famiglia Pasolini, soprattutto per la madre, distrutta dal dolore. Il rapporto tra Pier Paolo e la madre diviene così ancora più stretto, anche a causa del ritorno del padre dalla prigionia in Kenia:

Nel 1945 Pasolini si laurea discutendo una tesi intitolata "Antologia della lirica pascoliniana (introduzione e commenti) e si stabilisce definitivamente in Friuli. Qui trova lavoro come insegnante in una scuola media di Valvassone, in provincia di Udine.

In questi anni comincia la sua militanza politica. Nel 1947 si avvicina al PCI, cominciando la collaborazione al settimanale del partito "Lotta e lavoro". Diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, ma non viene visto di buon occhio nel partito e, soprattutto, dagli intellettuali comunisti friulani. Le ragioni del contrasto sono linguistiche. Gli intellettuali "organici" scrivono servendosi della lingua del novecento, mentre Pasolini scrive con la lingua del popolo senza fra l'altro cimentarsi per forza in soggetti politici. Agli occhi di molti tutto ciò risulta inammisibile: molti comunisti vedono in lui un sospetto disinteresse per il realismo socialista, un certo cosmopolitismo, e un'eccessiva attenzione per la cultura borghese.

Questo, di fatto, è l'unico periodo in cui Pasolini si sia impegnato attivamente nella lotta politica, anni in cui scriveva e disegnava manifesti di denuncia contro il costituito potere demoscristiano.

Il 15 ottobre del 1949 viene segnalato ai Carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne avvenuta, secondo l'accusa nella frazione di Ramuscello: è l'inizio di una delicata ed umiliante trafila giudiziaria che cambierà per sempre la sua vita. Dopo questo processo molti altri ne seguirono, ma è lecito pensare che se non vi fosse stato questo primo procedimento gli altri non sarebbero seguiti.

E' un periodo di contrapposizioni molto aspre tra la sinistra e la DC, e Pasolini, per la sua posizione di intellettuale comunista e anticlericale rappresenta un bersaglio ideale. La denuncia per i fatti di Ramuscello viene ripresa sia dalla destra che dalla sinistra: prima ancora che si svolga il processo, il 26 ottobre 1949.

Pasolini si trova proiettato nel giro di qualche giorno in un baratro apparentemente senza uscita. La risonanza a Casarsa dei fatti di Ramuscello avra' una vasta eco. Davanti ai carabinieri cerca di giustificare quei fatti, intrinsecamente confermando le accuse, come un'esperienza eccezionale, una sorta di sbandamento intellettuale: ciò non fa che peggiorare la sua posizione: espulso dal PCI, perde il posto di insegnante, e si incrina momentaneamente il rapporto con la madre. Decide allora di fuggire da Casarsa, dal suo Friuli spesso mitizzato e insieme alla madre si trasferisce a Roma.

I primi anni romani sono dificilissimi, proiettato in una realtà del tutto nuova e inedita quale quella delle borgate romane. Sono tempi d'insicurezza, di povertà, di solitudine.

Pasolini, piuttosto che chiedere aiuto ai letterati che conosce, cerca di trovarsi un lavoro da solo. Tenta la strada del cinema, ottenendo la parte di generico a Cinecittà, fa il correttore di bozze e vende i suoi libri nelle bancarelle rionali.

Finalmente, grazie al poeta il lingua abbruzzese Vittori Clemente trova lavoro come insegnante in una scuola di Ciampino.

Sono gli anni in cui, nelle sue opere letterarie, trasferisce la mitizzazione delle campagne friulane nella cornice disordinata della borgate romane, viste come centro della storia, da cui prende spunto un doloroso processo di crescita. Nasce insomma il mito del sottoproletariato romano.

Prepara le antologie sulla poesia dialettale; collabora a "Paragone", una rivista di Anna Banti e Roberto Longhi. Proprio su "Paragone", pubblica la prima versione del primo capitolo di "Ragazzi di vita".

Angioletti lo chiama a far parte della sezione letteraria del giornale radio, accanto a Carlo Emilio Gadda, Leone Piccioni e Giulio Cartaneo. Sono definitivamente alle spalle i difficili primi anni romani. Nel 1954 abbandona l'insegnamento e si stabilisce a Monteverde Vecchio. Pubblica il suo primo importante volume di poesie dialettali: "La meglio gioventu'".

Nel 1955 viene pubblicato da Garzanti il romanzo "Ragazzi di vita", che ottiene un vasto successo, sia di critica che di lettori. Il giudizio della cultura ufficiale della sinistra, e in particolare del PCI, è però in gran parte negativo. Il libro viene definito intriso di "gusto morboso, dello sporco, dell'abbietto, dello scomposto, del torbido.."

La Presidenza del Consiglio (nella persona dell'allora ministro degli interni, Tambroni) promuove un'azione giudiziaria contro Pasolini e Livio Garzanti. Il processo da' luogo all'assoluzione "perche' il fatto non costituisce reato". Il libro, per un anno tolto alle librerie, viene dissequestrato. Pasolini diventa però uno dei bersagli preferiti dai giornali di cronaca nera; viene accusato di reati al limite del grottesco: favoreggiamento per rissa e furto; rapina a mano armata ai danni di un bar limitrofo a un distributore di benzina a S. Felice Circeo. 
La passione per il cinema lo tiene comunque molto impegnato. Nel 1957, insieme a Sergio Citti, collabora al film di Fellini, "Le notti di Cabiria", stendendone i dialoghi nella parlata romana, poi firme sceneggiature insieme a Bolognini, Rosi, Vancini e Lizzani, col quale esordisce come attore nel film "Il gobbo" del 1960. 
In quegli anni collabora anche alla rivista "Officina" accanto a Leonetti, Roversi, Fortini, Romano', Scalia. Nel 1957 pubblica i poemetti "Le ceneri di Gramsci" per Garzanti e, l'anno successivo, per Longanesi, "L'usignolo della Chiesa cattolica". Nel 1960 Garzanti pubblica i saggi "Passione e ideologia", e nel 1961 un altro volume in versi "La religione del mio tempo".

Nel 1961 realizza il suo primo film da regista e soggettista, "Accattone". Il film viene vietato ai minori di anni diciotto e suscita non poche polemiche alla XXII mostra del cinema di Venezia. Nel 1962 dirige "Mamma Roma". Nel 1963 l'episodio "La ricotta" (inserito nel film a più mani "RoGoPaG"), viene sequestrato e Pasolini e' imputato per reato di vilipendio alla religione dello Stato. Nel '64 dirige "Il vangelo secondo Matteo"; nel '65 "Uccellacci e Uccellini"; nel '67 "Edipo re"; nel '68 "Teorema"; nel '69 "Porcile"; nel '70 "Medea"; tra il '70 e il '74 la triologia della vita, o del sesso, ovvero "Il Decameron", "I racconti di Canterbury" e "Il fiore delle mille e una notte"; per concludere col suo ultimo "Salo' o le 120 giornate di Sodoma" nel 1975.

Il cinema lo porta a intraprendere numerosi viaggi all'estero: nel 1961 e', con Elsa Morante e Moravia, in India; nel 1962 in Sudan e Kenia; nel 1963 in Ghana, Nigeria, Guinea, Israele e Giordania (da cui trarrà un documentario dal titolo "Sopralluoghi in Palestina").

Nel 1966, in occasione della presentazione di "Accattone" e "Mamma Roma" al festival di New York, compie il suo primo viaggio negli Stati Uniti; rimane molto colpito, soprattutto da New York. Nel 1968 e' di nuovo in India per girare un documentario. Nel 1970 torna in Africa: in Uganda e Tanzania, da cui trarrà il documentario "Appunti per un'Orestiade africana".

Nel 1972, presso Garzanti, pubblica i suoi interventi critici, soprattutto di critica cinematografica, nel volume "Empirismo eretico". 
Essendo ormai i pieni anni settanta, non bisogna dimenticare il clima che si respirava in quegli anni, ossia quello della contestazione studentesca. Pasolini assume anche in questo caso una posizione originale rispetto al resto della cultura di sinistra. Pur accettando e appoggiando le motivazioni ideologiche degli studenti, ritiene in fondo che questi siano antropologicamente dei borghesi destinati, in quanto tali, a fallire nelle loro aspirazioni rivoluzionarie.

Tornando ai fatti riguardanti la produzione artistica, nel 1968 ritira dalla competizione del Premio Strega il suo romanzo "Teorema" e accetta di partecipare alla XXIX mostra del cinema di Venezia solo dopo che, come gli viene garantito, non ci saranno votazioni e premiazioni. Pasolini è tra i maggiori sostenitori dell'Associazione Autori Cinematografici che si batte per ottenere l'autogestione della mostra. Il 4 settembre il film "Teorema" viene proiettato per la critica in un clima arroventato. L'autore interviene alla proiezione del film per ribadire che il film è presente alla Mostra solo per volontà del produttore ma, in quanto autore, prega i critici di abbandonare la sala, richiesta che non viene minimamente rispettata. La conseguenza è che Pasolini si rifiuta di partecipare alla tradizionale conferenza stampa, invitando i giornalisti nel giardino di un albergo per parlare non del film, ma della situazione della Biennale.

Nel 1972 decide di collaborare con i giovani di Lotta Continua, ed insieme ad alcuni di loro, tra cui Bonfanti e Fofi, firma il documentario 12 dicembre. Nel 1973 comincia la sua collaborazione al "Corriere della sera", con interventi critici sui problemi del paese. Presso Garzanti, pubblica la raccolta di interventi critici "Scritti corsari", e ripropone le poesia friulana in una forma del tutto peculiare sotto il titolo di "La nuova gioventu'".

La mattina del 2 novembre 1975, sul litorale romane ad Ostia, in un campo incolto in via dell'idroscalo, una donna, Maria Teresa Lollobrigida, scopre il cadavere di un uomo. Sarà Ninetto Davoli a riconoscere il corpo di Pier Paolo Pasolini. Nella notte i carabinieri fermano un giovane, Giuseppe Pelosi, detto "Pino la rana" alla guida di una Giulietta 2000 che risulterà di proprietà proprio di Pasolini. Il ragazzo, interrogato dai carabinieri, e di fronte all'evidenza dei fatti, confessa l'omicidio. Racconta di aver incontrato lo scrittore presso la Stazione Termini, e dopo una cena in un ristorante, di aver raggiunto il luogo del ritrovamento del cadavere; lì, secondo la versione di Pelosi, il poeta avrebbe tentato un approccio sessuale, e vistosi respinto, avrebbe reagito violentemente: da qui, la reazione del ragazzo.

Il processo che ne segue porta alla luce retroscena inquietanti. Si paventa da diverse parti il concorso di altri nell'omicidio ma purtroppo non vi sarà arriverà mai ad accertare con chiarezza la dinamica dell'omicidio. Piero Pelosi viene condannato, unico colpevole, per la morte di Pasolini.

Il corpo di Pasolini è sepolto a Casarsa.

Memoriale tratto da Biografieonline.it